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Bellamy guardò la strana valigetta e fu assalito dalla paura. Mi vuole torturare? Si divincolò. «Che cosa c’è lì dentro?»

Sato fece un sorriso sinistro. «Una cosa che la convincerà a considerare la situazione dal mio punto di vista. Glielo garantisco.»

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Lo spazio sotterraneo in cui Mal’akh praticava la sua Arte era nascosto in maniera molto ingegnosa. Lo scantinato della sua casa, entrando, sembrava del tutto normale: conteneva una caldaia, un contatore della corrente elettrica, legna da ardere e il solito assortimento di provviste e oggetti vari. Ma questa era solo una parte del sotterraneo. L’altra, destinata alle sue pratiche clandestine, si trovava dietro una parete.

Il luogo più privato di Mal’akh era composto da una serie di piccoli vani, ciascuno dei quali aveva una funzione specifica. Vi si accedeva soltanto attraverso una rampa segreta, praticamente impossibile da scoprire, dietro la parete del salotto.

Quando la scese, quella sera, i simboli tatuati sulla sua pelle parvero prendere vita nel bagliore azzurrognolo prodotto dallo speciale impianto di illuminazione dello scantinato. Mal’akh passò davanti a varie porte chiuse e andò dritto nella stanza più grande, in fondo al corridoio.

Quel "sancta sanctorum", come gli piaceva chiamarlo, era un quadrato perfetto di dodici piedi di lato. Dodici sono i segni dello zodiaco. Dodici sono le ore del giorno e della notte. Dodici sono le porte del cielo. Al centro della stanza c’era un tavolo quadrato di pietra, di sette piedi di lato. Sette sono i sigilli dell’Apocalisse. Sette sono i gradini del tempio. Sopra il tavolo, perfettamente centrata, c’era una lampada programmata in modo da proiettare una gamma preordinata di colori che si alternavano secondo un ciclo di sei ore, in base alla sacra Tavola delle ore planetarie. L’ora di Yanor è azzurra. L’ora di Nasnia è rossa. L’ora di Salam è bianca.

In quel momento era l’ora di Caerra, e pertanto la luce nella stanza aveva assunto una morbida sfumatura violacea. Con indosso soltanto il perizoma, Mal’akh cominciò i suoi preparativi.

Miscelò attentamente le sostanze aromatiche che in seguito avrebbe bruciato per santificare l’aria nella stanza. Quindi piegò la veste di seta vergine che avrebbe indossato successivamente sopra il perizoma. Da ultimo purificò una boccetta d’acqua per consacrare la sua offerta. Quando ebbe finito, dispose tutto su un tavolino.

Poi andò a prendere da uno scaffale una piccola scatola di avorio e la posò accanto agli altri oggetti. Non era ancora il momento di usarla, ma non resistette alla tentazione di sollevare il coperchio e ammirare il tesoro che racchiudeva.

Il coltello.

Dentro la scatola, su un cuscinetto di velluto nero, c’era il coltello sacrificale che da un anno conservava per quella sera. L’aveva comprato al mercato clandestino dell’antiquariato mediorientale per un milione e seicentomila dollari.

Il coltello più famoso della storia.

Antichissimo e da tutti creduto perduto, aveva una lama di ferro e l’impugnatura di osso. Nei secoli era appartenuto a molti personaggi illustri e potenti, ma ultimamente era sparito dalla circolazione e languiva in una collezione privata. Mal’akh aveva fatto di tutto per entrarne in possesso. Sospettava che fossero decenni, se non addirittura secoli, che non veniva usato per compiere un sacrificio. Ma quella stessa notte la sua lama sarebbe stata nuovamente utilizzata allo scopo per il quale era stata creata: versare il sangue di una vittima sacrificale.

Mal’akh sollevò delicatamente il coltello dal cuscino di velluto e lustrò con riverenza la lama con una pezzuola di seta inumidita con l’acqua purificata. Era diventato molto più esperto rispetto a quando faceva i suoi primi rudimentali esperimenti a New York. L’Arte oscura da lui praticata aveva molteplici nomi in una varietà di lingue diverse ma, comunque la si volesse chiamare, era una scienza esatta. Nell’antichità, rappresentava la chiave per varcare i portali del potere, ma in seguito era stata messa al bando, relegata nelle ombre dell’occultismo e della magia. I Pochi che ancora la praticavano erano considerati dei folli, ma Mal’akh sapeva che la verità era un’altra. Quest’Arte non è per gli stolti. Come la scienza moderna, era una disciplina che richiedeva formule precise, ingredienti specifici e una meticolosa attenzione ai tempi.

Ben diversa dall’inutile magia nera praticata spesso al giorno d’oggi con scarsa convinzione da spiriti curiosi, quest’Arte era in grado di scatenare forze smisurate pari a quelle della fisica nucleare. Gli inesperti dovevano fare attenzione. Chi la pratica incautamente rischia di essere annientato.

Finito di ammirare la sacra lama, Mal’akh spostò lo sguardo sulla spessa pergamena stesa sul tavolo. L’aveva ricavata lui stesso dalla pelle di un agnello che, in base al cerimoniale, doveva essere puro, ucciso prima della maturità sessuale. Accanto alla pergamena c’erano un calamo ricavato da una penna di corvo, un piatto d’argento e tre candele accese, disposte intorno a una bacinella di ottone contenente un sottile strato di un denso liquido scarlatto.

Il sangue di Peter Solomon.

Il sangue è la tintura dell’eternità.

Mal’akh posò la mano sinistra sulla pergamena, intinse il calamo nel sangue e tracciò con cura la sagoma della propria mano sul foglio. Poi vi aggiunse i cinque simboli degli antichi misteri, uno su ogni dito.

La corona… a significare il re che diventerò.

La stella… a significare i cieli che hanno scritto il mio destino.

Il sole… a significare l’illuminazione della mia anima.

La lanterna… a significare la luce fioca dell’umana comprensione.

E la chiave… a significare il pezzo mancante, quello di cui stanotte entrerò finalmente in possesso.

Completato il disegno, Mal’akh sollevò la pergamena e ammirò l’opera alla luce delle candele. Aspettò che il sangue asciugasse, poi piegò in tre la pergamena e, recitando un antico incantesimo, l’avvicinò alla terza candela. La pergamena prese fuoco. Mal’akh la posò sul piatto d’argento e la lasciò bruciare. In tal modo il carbonio contenuto nella pelle d’agnello si trasformò in sottile polvere nera. Quando le fiamme si spensero, unì la cenere al sangue rimasto nella bacinella, mescolando con la penna di corvo.

Il liquido si fece di un rosso più cupo, quasi nero.

Mal’akh prese la bacinella con entrambe le mani, la sollevò sopra la testa e intonò l’Eucharistos per il sangue versato. Poi trasferì il liquido in una fiala e la tappò. Quell’inchiostro gli sarebbe servito in seguito per tatuarsi l’ultimo lembo di pelle rimasto vergine e completare così il suo capolavoro.

82

La cattedrale di Washington è la sesta al mondo in ordine di grandezza. Più alta di un grattacielo di trenta piani, ha oltre duecento vetrate colorate, un carillon composto da cinquantatré campane, un organo a 10.647 canne e può contenere oltre tremila fedeli.

Quella notte, però, era deserta.

Il reverendo Colin Galloway, decano della cattedrale, sembrava essere senza età. Ingobbito e avvizzito, portava un semplice abito talare nero. Fece loro strada nel buio senza dire una parola. Langdon e Katherine lo seguirono in silenzio nella navata centrale, lunga quasi centoquaranta metri e appena incurvata a sinistra per creare un’illusione ottica di maggiore armonia. Quando arrivarono al grande transetto, il decano li guidò oltre il confine simbolico tra la parte riservata al pubblico e lo spazio sacro della chiesa.

Nel presbiterio aleggiava un profumo di incenso. L’unica luce era quella che si rifletteva dai soffitti lavorati. Oltre il coro, decorato da incisioni raffiguranti episodi della Bibbia, erano appese le bandiere dei cinquanta Stati. Il decano Galloway camminava deciso. Evidentemente conosceva il percorso a memoria. Per un attimo Langdon pensò che li stesse portando all’altare maggiore, davanti al quale si trovavano le dieci pietre provenienti dal monte Sinai, invece l’anziano prelato girò a sinistra e, avanzando a tastoni, varcò una porta seminascosta che conduceva negli uffici amministrativi adiacenti alla cattedrale.

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