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l’America non ha realizzato il proprio destino.

Coloro che avevano fondato la capitale degli Stati Uniti l’avevano originariamente chiamata Roma e avevano dato al suo fiume il nome Tevere. Vi avevano costruito pantheon e templi, adornati con le immagini delle divinità classiche più importanti: Apollo, Minerva, Venere, Elio, Vulcano e Giove. Al centro, come in molte città del mondo classico, avevano eretto un tributo imperituro alla tradizione: un obelisco egizio. Più grande di quelli del Cairo e di Alessandria d’Egitto, si elevava in altezza per quasi centosettanta metri, più di trenta piani, per ricordare e ringraziare il padre fondatore da cui la capitale aveva preso il nome, venerato quasi come un dio.

Washington.

A distanza di secoli, nonostante in America vigesse la separazione fra Chiesa e Stato, quella Rotonda che ospitava i più importanti organi pubblici brillava di antico simbolismo religioso. Ospitava oltre dieci divinità diverse, più di quante ve ne fossero al Pantheon di Roma. D’altra parte, il Pantheon romano nel 609 era diventato una chiesa cristiana, mentre quello americano non si era mai convertito, e le vestigia della sua vera storia restavano tuttora visibilissime.

«Come lei forse sa, il progetto della Rotonda si è ispirato a uno dei luoghi sacri più venerati di Roma, il tempio di Vesta.»

«Quello delle vestali?» Sato guardò Langdon dubbiosa: evidentemente non credeva che le sacerdotesse vergini incaricate di sorvegliare il fuoco sacro potessero avere a che fare con il Campidoglio di Washington.

«Il tempio di Vesta era circolare, con una fossa al centro in cui ardeva il fuoco dell’illuminazione, sorvegliato da un gruppo di vergini che aveva il compito di mantenere sempre accesa la fiamma.»

Sato si strinse nelle spalle. «La Rotonda è circolare, d’accordo, ma non ha nessuna fossa.»

«Non più, tuttavia per anni al centro di questa sala c’è stata una grande apertura, proprio lì dove si trova la mano di Peter Solomon adesso.» Le indicò il pavimento. «Si vedono ancora i segni della grata che impediva alla gente di cadere di sotto.»

«Che cosa?» Sato osservò il pavimento, stupita. «Non l’avevo mai sentito.»

«Mi sa che ha ragione.» Anderson indicava con il dito una serie di borchie di metallo disposte in cerchio. «Avevo visto quei tondi di metallo, ma non sapevo a cosa servissero.»

Non sei il solo, pensò Langdon, immaginando le migliaia di persone, celebri legislatori compresi, che ogni giorno attraversavano il centro della Rotonda senza avere idea che una volta da lì sarebbero caduti nei sotterranei del Campidoglio.

«Poi l’apertura venne chiusa, ma per parecchio tempo i visitatori della Rotonda poterono vedere il fuoco che ardeva nella cripta» spiegò Langdon.

Saro si voltò verso di lui. «Fuoco? Nel Campidoglio?»

«Più che un vero e proprio fuoco, era una torcia sempre accesa. Era qui, direttamente sotto di noi. Doveva essere visibile e rendeva questo luogo una sorta di moderno tempio di Vesta. Il Campidoglio aveva persino la sua vestale: un dipendente federale, il custode della cripta, ha mantenuto la fiamma accesa per cinquant’anni, senza interruzioni, finché politica, religione e annerimento da fumo hanno spento gli entusiasmi.»

Trent Anderson e Inoue Sato erano sorpresi.

L’unica traccia del fatto che in passato lì ardesse una torcia era ormai la rosa dei venti a quattro punte nel pavimento della cripta al piano sottostante, simbolo della fiamma perpetua dell’America, che un tempo aveva gettato luce fino ai confini del Nuovo Mondo.

«Dunque, professore, secondo lei l’uomo che ha lasciato qui la mano di Peter Solomon è al corrente di tutto questo?» gli chiese Inoue Sato.

«Sì, sa questo e molto altro. La sala in cui ci troviamo contiene diversi simboli che riflettono la fede negli antichi misteri.»

«Conoscenze esoteriche che permettono all’uomo di acquisire poteri quasi divini» aggiunse Sato sarcastica.

«Esatto.»

«Non mi sembra molto in accordo con i principi cristiani su cui si fonda la nostra nazione.»

«Già. Però è così. Questa deificazione dell’uomo è anche detta "apoteosi". Non so se lo sa, ma è il tema centrale del simbolismo della Rotonda.»

«Apoteosi?» Anderson si voltò, con un’espressione di improvvisa consapevolezza.

«Sì.» Anderson lo sa. Lavora qui. «In greco antico significa "deificazione", diventare un dio.»

Anderson sembrava sbigottito. «Apoteosi è lo stesso che diventare un dio? Non ne avevo idea…»

«Che cosa mi sono persa?» chiese Sato.

«Il più grande dipinto del Campidoglio si chiama L’apoteosi di George Washington e ritrae lo statista mentre viene deificato.»

Il direttore dell’os assunse un’espressione dubbiosa. «Mai visto.»

«Non direi proprio.» Langdon alzò un dito puntandolo verso il soffitto. «Ce l’ha sopra la testa.»

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L’apoteosi di George Washington — un affresco di quattrocentotrenta metri quadrati che ricopre la volta della Rotonda del Campidoglio — era stato ultimato nel 1865 da Costantino Brumidi.

Detto "il Michelangelo del Campidoglio", Brumidi aveva preteso per sé la cupola del Campidoglio proprio come Michelangelo aveva fatto con la Cappella Sistina, dipingendo un affresco sulla superficie più nobile dell’ambiente, il soffitto. Come Michelangelo, Brumidi aveva realizzato alcune delle sue opere più belle all’interno del Vaticano. Poi, però, nel 1852 era emigrato in America, abbandonando il più grande tempio di Dio in favore di un nuovo tempio, il Campidoglio americano, che adesso risplende di esempi della sua bravura, dai trompe-l’oeil dei Corridoi Brumidi al soffitto ornato di fregi nello studio del vicepresidente. Per la maggior parte degli storici, però, il vero capolavoro di Brumidi resta l’enorme dipinto sospeso sulla rotonda del Campidoglio.

Robert Langdon alzò lo sguardo verso il grande affresco. Di solito si divertiva nel vedere le reazioni sconcertate dei suoi studenti davanti alla bizzarra composizione del dipinto, ma in quel momento si sentiva prigioniero di un incubo che non riusciva ancora a comprendere.

Sato, accanto a lui, osservava con espressione corrucciata e le mani sui fianchi la volta imponente. Langdon capì che stava sperimentando la medesima reazione di tutti coloro che si soffermavano per la prima volta a osservare il dipinto che stava al centro ideale della loro nazione.

Totale disorientamento.

Non sei l’unica, rifletté Langdon. Per la maggior parte delle persone, L’apoteosi di George Washington diventava tanto più incomprensibile quanto più la si osservava. «Quello nel pannello centrale è George Washington» disse Langdon, indicando il centro della cupola, sessanta metri più in alto. «Come potete notare, è circondato da tredici figure femminili e sta ascendendo al cielo su una nuvola. È il momento della sua apoteosi, la sua trasformazione in un dio.»

Sato e Anderson osservavano in silenzio.

«Tutto intorno» proseguì Langdon «si vede una serie di figure strane e anacronistiche: sono alcuni dèi dell’antichità che regalano ai nostri antenati il sapere moderno. C’è Minerva, che offre l’ispirazione ai più grandi inventori della nostra nazione: Benjamin Franklin, Robert Fulton, Samuel Morse.» Langdon li indicò a uno a uno. «Là c’è Vulcano, con una macchina a vapore sullo sfondo. Quella al suo fianco è Cerere, la dea delle messi, che ha dato origine alla parola "cereale". È seduta su una mietitrice McCormick, la macchina agricola che ha permesso al nostro paese di diventare leader nel mondo nella produzione alimentare. Sul lato opposto c’è Nettuno, con Venere che mostra come stendere un cavo sottomarino attraverso l’Atlantico. Il dipinto raffigura chiaramente i nostri avi che ricevono il dono della conoscenza dagli dèi.» Abbassò la testa e guardò Sato. «La conoscenza è potere, e la giusta conoscenza permette all’uomo di compiere gesta miracolose, quasi divine.»

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