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Omar, esterrefatto, vide il grosso insetto nero sollevarsi da terra, virare bruscamente in direzione sudovest e sparire nella notte oltre Pennsylvania Avenue.

Intanto, un treno prendeva velocità e si allontanava da Freedom Plaza. Robert Langdon e Katherine Solomon, seduti in uno dei vagoni, riprendevano fiato in silenzio mentre la metropolitana li portava verso la loro meta successiva.

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Il ricordo cominciava sempre allo stesso modo: con la caduta.

Precipitava dal burrone all’indietro, verso il fiume ghiacciato. Dall’alto Peter Solomon lo guardava con occhi spietati, la pistola ancora in pugno. Andros cadeva e il mondo, lassù in alto, si allontanava sempre di più. Poi tutto spariva, inghiottito dalla nube di nebbia prodotta dalla cascata più a monte.

Per un attimo tutto diventava bianco come il cielo.

Poi l’impatto con la superficie ghiacciata del fiume.

Freddo. Buio. Dolore.

Andros roteava in un vuoto incredibilmente freddo, travolto da una forza che lo trascinava facendolo sbattere senza pietà contro pietre e massi. I polmoni avevano fame d’aria, ma a contatto con l’acqua gelida i muscoli del torace gli si contraevano con tanta violenza che gli era impossibile inspirare.

Sono prigioniero sotto una lastra di ghiaccio.

Vicino alla cascata il ghiaccio era sottile a causa della turbolenza dell’acqua e Andros cadendo lo aveva sfondato. La corrente lo stava trascinando verso valle sotto una lastra trasparente. Lui cercava di aggrapparvisi con le unghie per spaccarla dal basso e riemergere, ma non ci riusciva. Il dolore lancinante della ferita alla spalla e il bruciore causato dai pallettoni stavano scemando:

freddo gli faceva perdere la sensibilità.

Aveva un bisogno disperato di ossigeno. La corrente lo proiettava oltre un’ansa del fiume e poi in un groviglio di rami, contro il tronco di un albero caduto. Approfittane! Si aggrappava disperatamente a un ramo risalendo verso la superficie, infilava le dita in una crepa e cercava di allargarla. Dopo un paio di tentativi, riusciva a fare un buco nel ghiaccio.

Tenendosi al ramo sommerso, rovesciava la testa all’indietro e avvicinava la bocca alla piccola apertura. L’aria che gli entrava nei polmoni gli pareva calda, pur essendo pieno inverno. Quella boccata di ossigeno gli ridava speranza. Puntava i piedi sul tronco dell’albero e spingeva con forza verso l’alto con le spalle e la schiena. Intorno all’albero il ghiaccio era meno spesso e Andros, facendo forza sulle gambe possenti, riusciva a emergere con la testa e il collo. Ricominciava a respirare e, a furia di scalciare e tirare, usciva dall’acqua e si stendeva sul ghiaccio a riprendere fiato.

Si toglieva il passamontagna e se lo metteva in tasca. Guardava a monte, temendo che Peter Solomon fosse ancora lì, ma l’ansa del fiume gli impediva di vedere. Le ferite ricominciavano a bruciargli. Senza fare rumore, trascinava un ramo sopra il buco per nasconderlo. Durante la notte il ghiaccio si sarebbe riformato e l’indomani mattina non ci sarebbero state tracce del suo passaggio.

Si inoltrava nel bosco barcollando. Nel frattempo si era messo a nevicare. Non aveva idea di quanto avesse camminato prima di uscire dal bosco e arrampicarsi sul ciglio della strada. Delirava, era mezzo assiderato. Dopo un po’ la neve cominciava a scendere più fitta. Nel buio comparivano i fari di un veicolo. Andros si sbracciava e il pickup si fermava subito. Ne scendeva un uomo anziano, con una camicia rossa a quadri.

Andros gli andava incontro vacillando e stringendosi le braccia al petto sanguinante. "Mi hanno sparato… Un cacciatore… Devo andare all’ospedale!"

Il vecchio, senza alcuna esitazione, lo aiutava a salire in macchina e alzava il riscaldamento. "Dov’è l’ospedale più vicino?"

Andros non ne aveva idea ma, facendo un vago cenno verso sud, gli diceva: "Fra pochi chilometri". Non aveva nessuna intenzione di farsi portare all’ospedale.

Il giorno dopo veniva denunciata la scomparsa, durante una bufera di neve, di un anziano signore partito dal Vermont al volante del suo pickup, ma nessuno collegava l’episodio all’altra notizia che era sulle prime pagine di tutti i giornali: l’assassinio di Isabel Solomon.

Andros si svegliava in una camera squallida, in un motel malandato chiuso per l’inverno. Ricordava di aver forzato la porta, di essersi fasciato le ferite con dei lenzuoli strappati e poi di essersi raggomitolato nel letto sotto una montagna di coperte che odoravano di muffa. Aveva una fame spaventosa.

Si trascinava fino in bagno e vedeva un mucchietto di pallini da schioppo insanguinati nel lavabo: rammentava vagamente di esserseli estratti dal petto la sera prima. Alzava gli occhi e, guardandosi allo specchio sporco, si toglieva pian piano le bende per valutare i danni. Grazie ai pettorali e agli addominali molto sviluppati, i pallini non erano penetrati in profondità, ma il suo fisico non era più perfetto. Il proiettile sparatogli da Peter Solomon era fuoriuscito dalla spalla, lasciando un foro sanguinolento.

La cosa peggiore, tuttavia, era che Andros non era riuscito a entrare in possesso dell’oggetto per cui aveva fatto tutta quella strada. La piramide. Con lo stomaco che brontolava, usciva zoppicando e andava al pickup nella speranza di trovare qualcosa da mangiare. Vedendo che era coperto di uno spesso strato di neve, si chiedeva quante ore avesse dormito nel vecchio motel. Grazie a Dio mi sono svegliato. Non trovava nulla da mangiare, ma nel vano portaoggetti sotto il cruscotto c’erano degli antidolorifici. Ne prendeva una manciata e li mandava giù con l’aiuto di un po’ di neve.

Devo procurarmi del cibo.

Il pickup che partiva dal motel alcune ore più tardi non assomigliava affatto a quello che vi era arrivato due giorni prima. Il telone era sparito, come pure i copriruota, gli adesivi sui paraurti e tutte le rifiniture. Le targhe del Vermont erano state sostituite con quelle di un vecchio camion che Andros aveva trovato parcheggiato accanto al cassonetto in cui aveva buttato i lenzuoli sporchi di sangue, i pallini e tutte le altre tracce del proprio passaggio nel motel.

Non aveva rinunciato alla piramide, ma non poteva ripartire subito alla carica. Doveva trovare un posto in cui nascondersi e curarsi e, prima ancora, aveva bisogno di mangiare. Si fermava in una tavola calda lungo la strada, dove si rimpinzava di uova, pancetta e patate e beveva tre bicchieri di succo d’arancia. Prima di andarsene, ordinava ancora qualcosa da portare via. Poi si rimetteva in viaggio, con l’antiquata autoradio del pickup accesa. Erano giorni che non vedeva la televisione e non leggeva un giornale. La notizia trasmessa da una radio locale lo lasciava esterrefatto.

"Sono tuttora in corso le ricerche, da parte dell’FBI, dell’uomo armato che due giorni fa ha ucciso Isabel Solomon nella sua villa in Potomac. Gli inquirenti ritengono che lo sconosciuto sia caduto nel fiume gelato e che il suo corpo sia stato trascinato in mare dalla corrente."

Andros rimaneva impietrito. Isabel Solomon è morta? Continuava a guidare, sconcertato, e ascoltava in silenzio l’intero servizio.

Doveva fuggire, andare il più lontano possibile.

L’appartamento nell’Upper West Side di New York aveva una splendida vista su Central Park. Andros l’aveva scelto perché quella distesa di verde gli ricordava i panorami di quando viveva nel Mediterraneo. Sapeva che si sarebbe dovuto rallegrare di essere ancora vivo, ma non riusciva a essere felice. Continuava a provare un senso di vuoto e non faceva che pensare alla piramide che non era riuscito a farsi consegnare da Peter Solomon.

Aveva studiato a lungo la leggenda della piramide massonica e, sebbene alcuni dubitassero della sua esistenza, gli esperti erano tutti concordi sul fatto che rappresentava una promessa di saggezza e potere. Esiste veramente, pensava Andros. Io lo so per certo.

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