Литмир - Электронная Библиотека
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Arrivati in cima alle scale, entrarono in un vasto corridoio di marmi italiani, stucchi e foglie d’oro. Lungo le pareti erano allineate otto coppie di statue, che ritraevano tutte la dea Minerva. Bellamy accelerò il passo, guidando Langdon verso est, attraverso un arco a volta, in uno spazio ancora più grande.

Persino alla luce fioca caratteristica dell’orario di chiusura, l’immenso atrio della biblioteca splendeva della grandiosità di un opulento palazzo europeo.

Venti metri sopra le loro teste, lucernari di vetro istoriato luccicavano nei cassettoni del soffitto, decorati con rare "foglie di alluminio", un metallo che un tempo era considerato più prezioso dell’oro. Sotto, un’imponente fila di doppie colonne si allineava lungo la balconata al primo piano, a cui si accedeva grazie a due magnifiche scalinate; i montanti della balaustra reggevano gigantesche statue femminili in bronzo con in mano la fiaccola della conoscenza.

In un bizzarro tentativo di riflettere questo tema senza contravvenire ai canoni decorativi dell’architettura rinascimentale, nella balaustra delle scale erano stati intagliati dei putti simili a cupidi che rappresentavano scienziati moderni. Un angelo dell’elettricità che tiene in mano un telefono? Un cherubino entomologo con un esemplare in provetta? Langdon si domandò che cosa ne avrebbe pensato Bernini.

«Andremo a parlarne lì» disse Bellamy guidandolo oltre le teche in vetro antiproiettile che contenevano i due libri più preziosi della biblioteca: la grande Bibbia manoscritta di Magonza, risalente al 1450, e la copia americana della Bibbia di Gutenberg, uno dei tre esemplari in pergamena perfettamente conservati esistenti al mondo. Per restare in argomento, nelle volte del soffitto erano dipinte le sei tavole dell’opera di John White Alexander, The Evolution of the Book.

Bellamy si avviò deciso verso un’elegante doppia porta al centro della parete in fondo al corridoio est.

Langdon sapeva quale sala si trovasse al di là, ma non gli sembrava adatta per una conversazione. A parte l’ironia di parlare in un luogo pieno di cartelli con la scritta Si PREGA Di FARE SILENZIO, quello non dava l’idea di essere un "posto sicuro". Situato al centro esatto della pianta cruciforme della biblioteca, rappresentava il cuore dell’edificio. Nascondersi lì dentro era come correre in una cattedrale e sdraiarsi sull’altare.

Invece Bellamy, come se niente fosse, aprì la porta, entrò nella sala buia e cercò a tastoni gli interruttori della luce. Quando li premette, uno dei grandi capolavori dell’architettura americana sembrò materializzarsi dal nulla.

La famosa sala di lettura era un piacere per i sensi. Al suo centro, per quasi cinquanta metri, si innalzava un imponente ottagono i cui lati erano rivestiti di marmo color cioccolato del Tennessee, marmo giallo di Siena e marmo rosso algerino.

Essendo illuminata da otto angolazioni, nella sala non c’erano ombre e l’effetto era che sembrava risplendere di luce propria.

«Alcuni dicono che è la sala più straordinaria di Washington» commentò Bellamy accompagnando dentro Langdon.

Forse addirittura dei mondo intero, pensò Langdon varcandone la soglia. Come sempre, dapprima il suo sguardo fu attirato verso la cornice centrale in alto, da dove si irradiavano file di cassettoni arabescati che rivestivano la cupola fino alla balconata superiore. Tutt’intorno alla sala, sedici statue ritratto in bronzo guardavano giù dalla balaustrata. Sotto di loro, una splendida galleria di archi formava una balconata inferiore. Al livello del pavimento, tre cerchi concentrici di scrivanie in legno lucido si irradiavano dal massiccio banco al centro della sala dove venivano distribuiti i libri.

Langdon tornò a concentrarsi su Bellamy, che stava fissando i doppi battenti della porta per tenerli aperti. «Pensavo che ci dovessimo nascondere» gli disse, confuso.

«Se qualcuno entra nell’edificio» spiegò Bellamy «voglio sentirlo arrivare.»

«Ma qui ci troveranno in un attimo.»

«Ovunque ci nascondiamo, ci troveranno. Ma se ci intrappolano qui dentro, sarai contento che io abbia scelto questo posto.»

Langdon non aveva la minima idea del perché, ma Bellamy non sembrava intenzionato a discuterne con lui. Si stava già dirigendo verso un tavolo di lettura, dove sistemò due sedie e accese una lampada. Poi indicò con un cenno la borsa di Langdon.

«Okay, diamo un’occhiata più da vicino.»

Non volendo graffiare la superficie del tavolo con un blocco di granito, Langdon appoggiò tutta la borsa sul piano, aprì la cerniera e piegò all’esterno i due lembi, scoprendo la piramide.

Warren Bellamy orientò meglio la lampada e la studiò attentamente, facendo scorrere le dita sull’incisione. «Immagino che tu riconosca questi segni.»

«Certo» rispose Langdon osservando i sedici simboli.

Noto come "cifrario massonico", o "cifrario pigpen", quel linguaggio criptato era stato usato per comunicazioni segrete ha i primi fratelli massoni.

Quel sistema di criptografia era stato abbandonato da molto tempo per una semplice ragione: era troppo facile da decifrare.

Il simbolo perduto - pic_8.jpg

La maggior parte degli studenti di Langdon all’ultimo anno del seminario di simbologia ci sarebbe riuscita in circa cinque minuti. Lui, con una penna e un pezzo di carta, poteva farcela in meno di sessanta secondi.

La notoria facilità di decrittazione di quello schema presentava nella fattispecie un paio di paradossi. In primo luogo, la pretesa che Langdon fosse l’unica persona al mondo che ci sarebbe riuscita era assurda. In secondo luogo, affermare che un cifrario massonico fosse una questione di sicurezza nazionale, come aveva fatto Sato, era come dire che i codici di lancio dei missili nucleari sono criptati con i dischi cifrati che si trovano nei sacchetti di patatine. Langdon faceva ancora fatica a credere a tutta quella storia. Questa piramide è una mappa? E indica la sapienza perduta dei secoli?

«Robert» disse Bellamy in tono serio «il direttore Sato ti ha messo al corrente del perché le interessa tanto questa piramide?»

Langdon scosse la testa. «Non nei dettagli. Si è limitata a ripetere che era una questione di sicurezza nazionale. Immagino che stia mentendo.»

«Forse» disse Bellamy accarezzandosi la nuca. Sembrava che fosse tormentato da un pensiero. «Ma c’è una possibilità assai più inquietante.» Si voltò per guardare Langdon negli occhi. «Può darsi che il direttore Sato abbia scoperto il vero potenziale di questa piramide.»

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L’oscurità che avvolgeva Katherine Solomon sembrava assoluta.

Dopo aver abbandonato la familiare sicurezza della passatoia, ora avanzava annaspando alla cieca, con le braccia tese in avanti che toccavano solo lo spazio vuoto mentre lei si addentrava sempre di più nel nulla desolante. Sotto i piedi scalzi, la distesa infinita del cemento freddo le dava la stessa sensazione di un lago ghiacciato… un ambiente ostile dal quale lei adesso doveva scappare.

Non sentendo più l’odore dell’etanolo, si fermò e aspettò nel buio. Rimase in ascolto immobile, desiderando che il suo cuore la smettesse di battere così forte. I passi pesanti dietro di lei sembravano essersi interrotti. L’ho seminato? Katherine chiuse gli occhi e cercò di immaginare dove si trovasse. In quale direzione sono scappata? Dov’è la porta? Ma era inutile. Aveva girato così tante volte su se stessa che l’uscita avrebbe potuto essere ovunque.

La paura, aveva sentito dire una volta Katherine, agiva da stimolante, affinando le capacità di riflessione. In quel momento, invece, la paura aveva trasformato la sua mente in un vortice di panico e confusione. Anche se trovassi la porta, non potrei uscire. Aveva perso la chiave magnetica quando si era liberata del camice. La sua unica speranza, ormai, era quella di essere come un ago nel pagliaio: un puntino su una griglia di quasi tremila metri quadrati. Malgrado l’irresistibile impulso di scappare, la mente analitica di Katherine le suggerì invece di fare l’unica mossa logica: non muoversi affatto. Resta immobile. Non fare il minimo rumore. La guardia di sicurezza stava arrivando e, per qualche inspiegabile motivo, il suo aggressore puzzava di etanolo. Se si avvicina, me ne accorgo.

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