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Cosa ho da perdere?

Tre settimane più tardi, dopo aver pianificato tutto con cura, Andros spiava dalla vetrata del giardino d’inverno della villa dei Solomon in Potomac, nel freddo intenso. Peter Solomon chiacchierava e rideva con sua sorella Katherine. Avete fatto presto a dimenticare Zachary, pensò.

Prima di calarsi il passamontagna sul volto, Andros si era fatto una pista di coca, la prima dopo tantissimo tempo, e si era sentito invadere da una familiare sensazione di invincibilità. Impugnata la pistola, aveva aperto la porta con una vecchia chiave ed era entrato nel giardino d’inverno. "Salute a voi, Solomon."

Purtroppo, la serata non era andata come Andros aveva previsto: anziché ottenere la piramide che cercava si era beccato una scarica di pallettoni e aveva dovuto darsi alla fuga, attraversando il prato innevato per rifugiarsi nel bosco. Con sua sorpresa, Peter Solomon lo aveva inseguito, con la pistola in mano. Andros si era infilato fra gli alberi e aveva imboccato un sentiero che correva lungo un burrone. In quel punto il fiume formava una cascata. Aveva oltrepassato un gruppetto di querce e aveva preso il sentiero alla sua sinistra. Pochi secondi dopo, si era fermato appena in tempo sull’orlo del precipizio, rischiando di scivolare sul ghiaccio.

Oh, mio Dio!

Il sentiero finiva lì. Parecchi metri più in giù scorreva il fiume, coperto da uno strato di ghiaccio. Su un masso, lì vicino, era incisa una scritta con mano infantile:

Il ponte di Zach

Dall’altra parte del fiume, il sentiero proseguiva. Dov’è il ponte? L’effetto della cocaina si era esaurito. Sono in trappola! In preda al panico, Andros si era voltato per tornare sui propri passi, ma si era ritrovato di fronte Peter Solomon, con il fiato grosso e la pistola in mano. Vedendolo, Andros aveva fatto un passo indietro. Il fiume doveva essere almeno quindici metri più sotto. Dalla cascata si alzava una nebbia sottile.

"Il ponte di Zach è marcito tanti anni fa" aveva detto Solomon, ansante. "Lui era l’unico a venire fin quaggiù." Solomon teneva la pistola con mano sorprendentemente ferma. "Perché hai ucciso mio figlio?"

"Non valeva niente" aveva risposto Andros. "Era un drogato. Gli ho fatto un favore."

Solomon si era avvicinato, puntandogli la pistola al petto. "Forse dovrei fare lo stesso favore anche a te." Lo aveva detto in tono spietato. "L’hai massacrato di botte. Come può un essere umano fare una cosa del genere?"

"Gli uomini fanno le cose più impensabili quando vengono spinti al limite."

"Tu hai ucciso mio figlio!"

"No" aveva risposto Andros, accalorandosi. "Sei stato tu a ucciderlo. Che razza di padre lascia il proprio figlio a marcire in galera quando ha la possibilità di farlo uscire? È stata colpa tua, non mia."

"Tu non sai niente!" aveva urlato Solomon, la voce piena di dolore.

Ti sbagli, aveva pensato Andros. Io so tutto.

Peter Solomon si era avvicinato ancora di più. Ormai era a pochi metri di distanza da lui, la pistola sempre puntata al suo petto.

Andros provava un bruciore fortissimo al torace e sanguinava. Sentiva scorrere il sangue sull’addome. Aveva guardato il burrone alle sue spalle. No, saltare era impensabile. Si era voltato verso Peter Solomon. "So più cose sul tuo conto di quanto non immagini" aveva sussurrato. "So che non sei uomo da uccidere a sangue freddo."

Peter Solomon aveva fatto un altro passo avanti, prendendo bene la mira.

"Ti avverto" aveva ammonito Andros. "Se premi quel grilletto, non avrai pace."

"Già ora non ho più pace" aveva detto Solomon. E aveva sparato.

Mentre sfrecciava a bordo della sua limousine nera diretto a Kalorama Heights, l’uomo che ora si faceva chiamare Mal’akh rifletteva sulle straordinarie coincidenze che lo avevano salvato da una morte certa. Quell’evento lo aveva completamente trasformato. L’eco dello sparo era durata solo un attimo, ma i suoi effetti si ripercuotevano ancora in quel momento, dopo anni. Il corpo di Mal’akh, un tempo abbronzato e perfetto, era rimasto segnato dalle cicatrici di quel Natale, adesso nascoste sotto i simboli tatuati della sua nuova identità.

lo sono Mal’akh.

Questo è il mio destino.

Aveva attraversato il fuoco, era stato ridotto in cenere ed era risorto… ancora una volta trasformato. Quella sera lo aspettava l’ultima tappa di quel lungo e magnifico viaggio.

58

L’esplosivo chiamato in gergo Key4 era stato messo a punto dalle forze speciali allo scopo specifico di abbattere porte senza causare troppi danni collaterali. Composto da ciclotrimetilentrinitroammina e dietilesilftalato, un plastificante, era in sostanza un foglietto sottilissimo di C-4 che si poteva inserire negli stipiti delle porte. Nella sala di lettura della biblioteca, funzionò alla perfezione.

Il caposquadra Turner Simkins superò i resti della porta distrutta e osservò la grande sala ottagonale, attento a cogliere il minimo movimento. Nulla.

«Spegnete le luci» ordinò.

Uno dei suoi uomini cercò il pannello degli interruttori e fece precipitare la stanza nell’oscurità. I quattro agenti si abbassarono sul volto i visori notturni, sistemandoseli sugli occhi. Immobili, si guardarono intorno: la sala di lettura appariva adesso di un verde brillante.

Tutto fermo. Nessun movimento.

Nessun tentativo di fuga nel buio.

Nonostante stesse cercando persone che con ogni probabilità erano disarmate, la squadra era entrata nella sala con i fucili spianati. Nel buio, i sottili raggi rossi dei mirini laser apparivano ancora più minacciosi. Si muovevano in tutte le direzioni, sul pavimento, lungo le pareti e le balconate, sondando l’oscurità. Spesso il ricercato, appena li vedeva balenare nel buio, si arrendeva.

Non quella sera, però.

Immobilità assoluta.

L’agente Simkins alzò una mano, ordinando ai suoi di avanzare in ordine sparso. Gli uomini obbedirono in silenzio. Simkins si diresse cauto verso il bancone centrale, premette un interruttore sul visore e attivò il più recente dispositivo aggiuntosi all’armamentario della CIA. La termografia era nota da anni, ma i recenti sviluppi in fatto di miniaturizzazione, sensibilità differenziale e integrazione a doppia sorgente avevano reso possibile una nuova generazione di strumenti capaci di conferire agli agenti sul campo un’acuità visiva che rasentava il sovrumano.

Vediamo nel buio. Vediamo attraverso le pareti… e ora vediamo anche nel passato.

Le apparecchiature di imaging a infrarossi erano ormai così sensibili ai differenziali termici che riuscivano a stabilire non soltanto dov’era una persona, ma anche dove era stata fino a poco prima. La possibilità di "vedere nel passato" era utilissima. E tale si dimostrò anche quella sera. L’agente Simkins individuò una traccia termica su uno dei tavoli della sala di lettura. Due sedie di legno risultavano luminescenti, di un rosso violaceo, segno che erano più calde delle altre. La lampada era arancione: evidentemente i due uomini si erano seduti lì. Il problema era capire dove fossero andati dopo.

Simkins trovò la risposta sul bancone intorno al grande mobile di legno al centro della sala: un’impronta di mano color porpora.

Si avvicinò, con il fucile spianato, ed esplorò con il laser tutta la superficie del mobile. Vi girò intorno finché trovò una piccola porta. Si sono nascosti in un armadio? Controllò la zona circostante all’apertura e vide un’altra impronta luminescente: qualcuno si era appoggiato allo stipite mentre si infilava dentro.

Non era più il caso di stare attenti a non fare rumore.

«Traccia termica!» urlò Simkins. «Convergete tutti qui!»

Gli uomini si avvicinarono e si disposero intorno al banco della distribuzione.

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