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Dove mi stanno portando?

Scendendo di corsa con Anderson e Sato nelle viscere del Campidoglio, Langdon sentiva il battito cardiaco accelerare a ogni gradino. Avevano iniziato il loro viaggio attraverso il porticato ovest della Rotonda, imboccando una scalinata di marmo per poi ripiegare attraverso una grande entrata nel locale che si trova direttamente sotto il pavimento della Rotonda.

La cripta del Campidoglio.

Lì l’aria era più pesante, e Langdon avvertiva già i primi sintomi di claustrofobia. Il soffitto basso della cripta e la debole illuminazione accentuavano la circonferenza imponente delle quaranta colonne doriche che sostenevano il peso del grande pavimento soprastante. Rilassati, Robert.

«Da questa parte» disse Anderson tagliando velocemente a sinistra nell’ampio spazio circolare.

Grazie al cielo, quella particolare cripta non conteneva cadaveri. C’erano però parecchie statue, un modellino del Campidoglio e, nella parte più bassa, un’area in cui veniva riposto il catafalco di legno su cui erano posate le bare in occasione di funerali di Stato. Il gruppo procedette di corsa, senza degnare neppure di uno sguardo la rosa dei venti posta al centro del pavimento, nel punto in cui un tempo ardeva la fiamma perpetua.

Anderson sembrava avere fretta e Sato teneva di nuovo la testa china sul suo BlackBerry. Langdon aveva sentito dire che il segnale era stato amplificato e diffuso in tutti gli angoli del Campidoglio per supportare le centinaia di telefonate che ogni giorno venivano effettuate là dentro.

Dopo aver attraversato in diagonale la cripta, il gruppo entrò in un atrio scarsamente illuminato e imboccò una serie di tortuosi passaggi e vicoli ciechi. Il dedalo di corridoi conteneva ingressi contrassegnati da sigle. Langdon le leggeva a mano a mano che avanzavano serpeggiando.

S154… S153… S152…

Non aveva idea di cosa ci fosse dietro quelle porte, ma adesso almeno una cosa gli era chiara: il significato del tatuaggio sulla mano di Peter Solomon. SBB XIII doveva essere la numerazione di un locale nascosto nei sotterranei del Campidoglio.

«Cosa sono queste porte?» chiese Langdon stringendo la borsa contro le costole e chiedendosi cosa c’entrasse il pacchetto di Solomon con una porta contrassegnata dalla sigla SBB 13.

«Uffici e depositi» rispose Anderson. «Uffici privati e depositi» aggiunse, lanciando un’occhiata a Sato.

La donna non alzò neppure lo sguardo dal BlackBerry.

«Sembrano piccoli» osservò Langdon.

«La maggior parte è poco più di uno stanzino, ma sono comunque gli spazi più ambiti di tutto il Distretto di Columbia. Questo è il cuore del Campidoglio originario, e la vecchia sala del Senato si trova esattamente due piani sopra di noi.»

«E di chi è l’ufficio SBB 13?» chiese Langdon.

«Di nessuno. SBB è una zona di deposito privata, e devo dire che sono stupito del fatto…»

«Anderson.» Sato lo interruppe senza alzare lo sguardo dal BlackBerry. «Si limiti ad accompagnarci sul posto, per favore.»

Anderson serrò la mascella e li guidò in silenzio attraverso quella che sembrava una via di mezzo tra un deposito e un labirinto mitologico. Su quasi ogni parete c’erano indicazioni che puntavano in questa o quella direzione, apparentemente allo scopo di localizzare specifici blocchi di uffici nel reticolo di corridoi.

S 142 — S 152… ST 1 — ST 70… H1 — H 166 e HT 1 — HT 67…

Langdon dubitava che sarebbe riuscito a trovare l’uscita da solo. Questo posto è un dedalo. Da quanto aveva capito, i numeri degli uffici cominciavano con una S o con una H, a seconda che si trovassero sul lato del Senato o della House of Representatives, la Camera dei Rappresentanti. Le zone contrassegnate ST o HT si trovavano, a quanto pareva, su un livello che Anderson chiamò Terrace Level, il pianterreno.

Ancora nessuna traccia di SBB.

Alla fine arrivarono davanti a una pesante porta di sicurezza d’acciaio dotata di una serratura ad apertura magnetica.

LIVELLO SB

Langdon intuì che erano vicini.

Anderson estrasse la chiave magnetica ma esitò, chiaramente a disagio per le richieste di Sato.

«Forza» lo esortò lei. «Non abbiamo tutta la sera.»

Riluttante, il capo della sicurezza passò la chiave nel lettore. La serratura scattò e lui spinse la porta d’acciaio. Dopo averla varcata, i tre si ritrovarono in un vestibolo. La pesante porta si richiuse con uno scatto alle loro spalle.

Langdon non avrebbe saputo dire cosa aveva sperato di trovare, ma di certo non quello che vide davanti a sé. Una scala che scendeva. «Ancora più giù?» chiese fermandosi di colpo. «Esiste un altro livello sotto la cripta?»

«Sì» rispose Anderson, «SB sta per Senate Basement, il seminterrato del Senato.»

Langdon si lasciò sfuggire un gemito. Fantastico.

29

I fari che stavano risalendo la strada d’accesso alberata dell’SMSC erano i primi che la guardia vedeva da un’ora. Ligio al dovere, abbassò il volume del televisore portatile e nascose gli snack sotto il banco. Un tempismo maledetto: i Redskins stavano completando la prima fase d’attacco e lui non se la voleva perdere.

Mentre l’auto si avvicinava, la guardia controllò il nome sul blocco per appunti che aveva davanti.

Dottor Christopher Abaddon.

Katherine Solomon aveva telefonato poco prima per avvertire dell’imminente arrivo del suo ospite. La guardia non aveva idea di chi potesse essere quel dottore, ma a quanto pareva se la cavava piuttosto bene nel suo mestiere, visto che viaggiava a bordo di una limousine stretch. Il lungo ed elegante veicolo si fermò accanto alla guardiola e il vetro oscurato dalla parte dell’autista si abbassò silenziosamente.

«Buonasera» salutò lo chauffeur, togliendosi il berretto. L’uomo, che aveva la testa rasata e la corporatura massiccia, stava seguendo la partita di football alla radio. «Accompagno il dottor Abaddon dalla dottoressa Solomon.»

La guardia annuì. «Documenti, per favore.»

L’autista sembrò sorpreso. «Chiedo scusa, ma la dottoressa Solomon non l’ha avvertita?»

La guardia annuì di nuovo, lanciando un’occhiata furtiva al televisore. «Ho comunque l’obbligo di controllare e registrare l’identità dei visitatori. Mi dispiace, ma sono le regole. Ho bisogno di vedere un documento del dottore.»

«Nessun problema.» L’autista si voltò sul sedile e parl ò sottovoce attraverso il divisorio. La guardia intanto diede un’altra sbirciata alla partita e vide che i Redskins stavano sciogliendo l’huddle. Sperò di sbarazzarsi della limousine prima che iniziasse l’azione successiva.

L’autista si girò di nuovo e tese il documento che, apparentemente, gli era appena stato passato attraverso il divisorio.

La guardia lo prese e lo scannerizzò, controllandolo rapidamente nel sistema informatico. La patente, rilasciata a Washington, era intestata a un certo Christopher Abaddon di Kalorama Heights. La foto mostrava un attraente signore biondo in blazer blu, cravatta e fazzoletto di seta nel taschino. Ma chi diavolo mette il fazzoletto nel taschino per una fototessera?

Dal televisore si alzò un applauso smorzato e la guardia si voltò appena in tempo per vedere un giocatore dei Redskins che ballava nella end zone, il dito puntato verso il cielo. «E io me lo sono perso» borbottò la guardia, girandosi di nuovo verso il finestrino dell’auto. «Okay» disse poi restituendo la patente all’autista. «Tutto a posto.»

La limousine ripartì e la guardia tornò al suo televisore, sperando in un replay.

Mentre guidava lungo la tortuosa strada d’accesso, Mal’akh non potè fare a meno di sorridere. Era stato semplice entrare nel museo segreto di Peter Solomon. Ancora più gratificante era il pensiero che quella era la seconda volta in ventiquattr’ore che penetrava in uno spazio privato di Solomon. La sera prima c’era stata una visita analoga a casa sua.

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