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Katherine non replicò.

«Quando me lo ha affidato, mi ha detto che mi avrebbe dato il potere di creare ordine dal caos. Non so bene che cosa intendesse, ma penso che la cuspide abbia un grande valore, perché Peter mi ha raccomandato di non permettere che finisca in cattive mani. Me l’ha ripetuto anche Bellamy, esortandomi a nascondere la piramide e a non lasciare che il pacchetto venga aperto.»

Katherine si voltò, infuriata. «Bellamy ti ha chiesto di non aprire il pacchetto?»

«Sì. E ha insistito molto.»

Katherine non riusciva a crederci. «Ma non mi hai detto che la cuspide è la chiave per decifrare l’iscrizione sulla piramide?»

«Probabilmente sì.»

Katherine alzò la voce. «E il rapitore di Peter ti ha ordinato di risolvere l’enigma, altrimenti non lo avrebbe lasciato libero, giusto?»

Langdon annuì.

«Allora perché non apriamo il pacchetto e non proviamo subito a decifrare l’iscrizione?»

Langdon non sapeva cosa rispondere. «Ho avuto la tua stessa reazione, Katherine, ma Bellamy mi ha detto che preservare il segreto è più importante di qualsiasi altra cosa… anche della vita di tuo fratello.»

Katherine assunse un’espressione dura e si sistemò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Per questa piramide ho perso tutta la mia famiglia» dichiarò in tono deciso. «Prima Zachary, poi mia madre e adesso anche mio fratello. E diciamocelo, Robert, se non mi avessi chiamato per avvertirmi, stasera…»

Langdon si sentiva fra l’incudine e il martello: da una parte c’era la logica di Katherine e dall’altra le accorate suppliche di Bellamy.

«Sono una scienziata, ma appartengo a una famiglia di massoni» proseguì Katherine. «Credimi, ho sentito parlare mille volte della piramide massonica e della sua promessa di un tesoro capace di illuminare l’umanità. Onestamente, non credo che esista davvero. Se esiste, però… forse è venuta l’ora di svelarlo.» E infilò un dito sotto il cordino.

Langdon fece un salto. «No, Katherine! Aspetta!»

Lei esitò, ma non tolse il dito. «Robert, non intendo lasciare che mio fratello muoia per questo. Qualsiasi cosa ci possa dire la cuspide, che ci conduca o no a tesori nascosti, questa storia deve finire. Stasera.»

Con aria di sfida, tirò il cordino e spezzò il fragile sigillo di ceralacca.

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In una zona tranquilla vicino al quartiere delle ambasciate, a Washington, c’è un giardino in stile medievale, protetto da mura di pietra, con rose che si dice nascano da una specie risalente al dodicesimo secolo. Fra i sentieri lastricati di pietre provenienti dalla cava privata di George Washington, si erge la Shadow House, un gazebo in quarzite di Carderock.

Il silenzio del giardino, quella notte, fu infranto da un giovane che superò di corsa il cancello di legno, chiamando a gran voce.

«C’è nessuno?» gridava, scrutando nella notte illuminata dal chiarore della luna.

La voce che gli rispose era fievole e a malapena udibile. «Sono nel gazebo… Prendevo una boccata d’aria.»

Il giovane trovò il suo anziano superiore seduto sulla panchina di pietra, con un plaid sulle spalle. Magrissimo, con la schiena curva, sembrava un elfo. L’età lo aveva ingobbito e privato della vista, ma il suo animo restava forte e risoluto.

Il giovane, che aveva il fiatone, gli disse: «Ho appena… ricevuto… una telefonata… dal suo amico… Warren Bellamy».

«Oh.» Il vecchio alzò il viso, incuriosito. «Cosa voleva?»

«Non me lo ha detto, ma aveva molta fretta. Mi ha riferito di averle lasciato un messaggio in segreteria telefonica. Si è raccomandato che lei lo ascolti il prima possibile.»

«E non ha aggiunto altro?»

«Be’, veramente…» Il giovane fece una breve pausa. «Mi ha chiesto di farle una domanda.» Una domanda stranissima. «E ha bisogno di una risposta immediata.»

Il vecchio si avvicinò. «Che domanda?»

Quando gliela riferì, il giovane vide che il suo superiore impallidiva. Si tolse il plaid dalle spalle e si alzò faticosamente in piedi.

«Aiutami a rientrare. Presto.»

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Basta segreti, pensò Katherine Solomon.

Sul tavolo davanti a lei erano sparsi i pezzi del sigillo dì ceralacca che per generazioni aveva protetto il prezioso pacchetto di suo fratello. Tolse la carta marrone sbiadita che lo avvolgeva. Langdon la osservò, a disagio.

Dentro c’era una piccola scatola di pietra grigia, un cubo di granito levigato, senza cerniere, senza chiusure, apparentemente inaccessibile. A Katherine vennero in mente le scatole rompicapo giapponesi.

«Sembra tutta d’un pezzo» disse passando le dita sui bordi. «Sei sicuro che ai raggi X risultasse cava e con la cuspide di una piramide dentro?»

«Sicurissimo» rispose Langdon avvicinandosi a Katherine per osservare la scatola misteriosa. La guardarono da ogni angolazione cercando un modo per aprirla.

«Ho capito!» esclamò a un certo punto Katherine. Aveva trovato con l’unghia una minuscola fessura lungo uno spigolo. Posò il cubo sul tavolo e fece leva: il coperchio si alzò facilmente, come in un portagioie.

Rimasero senza fiato: l’interno della scatola pareva brillare di luce propria, quasi innaturale.

Katherine non aveva mai visto un blocco d’oro massiccio di Quelle dimensioni. Le ci volle un momento prima di rendersi conto che il metallo prezioso rifletteva la luce della lampada.

Spettacolare!» sussurrò. Sebbene fosse rimasta chiusa in una scatola di pietra per oltre un secolo, la cuspide non era né sbiadita né annerita. L’oro resiste al decadimento entropico. Anche per questo gli antichi gli attribuivano virtù magiche. Con il batticuore, si chinò ad ammirarla. «C’è un’iscrizione.»

Langdon si avvicinò sfiorandole una spalla. Nei suoi occhi azzurri brillava una luce di curiosità. Spiegò a Katherine l’antica pratica greca del symbolon — un oggetto spezzato in due parti — e le disse che la piramide era sempre stata tenuta lontana dalla sua cuspide perché solo riunendole si sarebbe potuta decifrare la scritta. L’iscrizione sulla cuspide avrebbe portato ordine nel caos.

Katherine avvicinò ulteriormente la scatola alla luce e guardò meglio.

Benché minuscola, l’iscrizione era visibilissima: una frase elegantemente incisa su una faccia della cuspide. Katherine la lesse.

E poi la rilesse.

«No!» esclamò. «Non può essere!»

Dall’altra parte della strada, il direttore Sato usciva dal Campidoglio e correva verso First Street. Il rapporto che aveva appena ricevuto dalla sua squadra era inaccettabile: Langdon era sparito, insieme con la piramide e la cuspide. Bellamy era stato catturato, però si rifiutava di parlare. Fino a quel momento, i suoi uomini non erano riusciti a fargli dire la verità.

Ci riuscirò io.

Si voltò un attimo verso il nuovo scorcio sul Campidoglio: la cupola illuminata vista sullo sfondo dell’appena inaugurato centro visitatori. Le ricordò l’importanza della posta in gioco quella sera. Sono tempi pericolosi.

Sentì partire la suoneria del cellulare e tirò un sospiro di sollievo nel vedere il nome sul display.

«Nola, cos’hai scoperto?» rispose.

L’analista Nola Kaye le diede la cattiva notizia: nelle radiografie l’iscrizione sulla cuspide della piramide risultava troppo sfocata e nessun filtro era in grado di migliorare sufficientemente l’immagine.

Merda. Inoue Sato si morse un labbro. «E la griglia di sedici lettere?»

«Ci sto ancora lavorando» rispose Nola. «Finora non ho trovato nessuno schema di criptazione applicabile. Ho lanciato un programma per riordinare le lettere della griglia in tutti i modi possibili, che però sono oltre venti trilioni.»

«Continua a lavorarci. E fammi sapere.» Sato chiuse la comunicazione, scura in volto. La speranza di riuscire a decifrare la piramide attraverso foto e radiografie stava sfumando. Ho bisogno di quella piramide e della sua cuspide… e al più presto!

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