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Langdon guardò il suo orologio di Topolino: erano le nove e quarantadue. «Ti rendi conto che il rapitore di Peter aspetta che io decifri la mappa e gli dia le coordinate entro stanotte?»

Bellamy si accigliò. «In passato uomini illustri si sono sacrificati per proteggere gli antichi misteri. Anche io e te dobbiamo farlo.» Si alzò in piedi. «Andiamo via: prima o poi Inoue Sato scoprirà dove siamo.»

«E Katherine?» protestò Langdon, che non voleva andarsene. «Non ha più chiamato e io non riesco a contattarla.»

«Sarà successo qualcosa.»

«Non possiamo abbandonarla!»

«Dimenticati di Katherine» ribatté Bellamy in tono imperioso. «Di lei, di Peter, di tutti! Non capisci che ti è stato affidato un compito più importante di noi: di me, di te, di Peter, di Katherine?» Lo guardò negli occhi. «Dobbiamo nascondere piramide e cuspide in un posto sicuro, lontano da…»

Si sentì un fragore metallico.

Bellamy si voltò di scatto. Aveva gli occhi pieni di paura. «Hanno fatto presto.»

Langdon si girò verso la porta. Doveva essere caduto il secchio che Bellamy aveva posato sulla scala a pioli davanti alla porta del tunnel. Ci hanno trovato.

Poi, inaspettatamente, il rumore riecheggiò.

E poi di nuovo.

E ancora.

Il senzatetto sulla panchina davanti alla Biblioteca del Congresso si sfregò gli occhi e osservò la strana scena.

Una Volvo bianca era appena salita a gran velocità sul marciapiede e aveva inchiodato davanti all’ingresso della biblioteca. Una bella donna mora era scesa di corsa, si era guardata in giro e, vedendolo, gli aveva chiesto: "Ha un telefono, per cortesia?".

Non ho neanche tutte e due le scarpe…

La donna, capita la situazione, salì su per le scale.

Arrivata in cima, afferrò la maniglia e cercò disperatamente di aprire le tre enormi porte.

La biblioteca è chiusa, signora mia.

La donna non demordeva. Si aggrappò a uno dei maniglioni rotondi, lo sollevò e lo sbatté con forza contro la porta. Lo fece una volta, due, tre…

Porca miseria, pensò il senzatetto. Deve aver proprio una gran voglia di leggere…

56

Quando Katherine Solomon vide finalmente aprirsi il pesante portone di bronzo della biblioteca, si sentì travolgere dalle emozioni. La paura e lo smarrimento che si era tenuta dentro fino allora ebbero il sopravvento.

Nell’atrio c’era Warren Bellamy, amico e confidente di suo fratello. Ma dietro di lui, nell’ombra, c’era la persona che più le faceva piacere incontrare. Evidentemente, la cosa era reciproca: anche Langdon sembrava sollevato di vederla lì, che entrava nella biblioteca e… gli si gettava fra le braccia.

Mentre i due vecchi amici si stringevano, Bellamy chiuse la porta. Katherine udì scattare la serratura e si sentì al sicuro. Per quanto si sforzasse, non riuscì più a trattenere le lacrime.

Langdon la rassicurò. «È tutto a posto» le sussurrò. «Sei in salvo…»

Mi hai salvato tu, avrebbe voluto dirgli Katherine. Quel mostro mi ha distrutto il laboratorio. Anni di ricerca andati in fumo… Avrebbe voluto raccontargli tutto, ma le mancava il fiato.

«Troveremo Peter.» La voce profonda di Langdon la confortò. «Te lo prometto.»

So chi è stato! avrebbe voluto gridare. Lo stesso che ha ucciso mia madre e mio nipote! Prima che potesse parlare, però, un rumore ruppe all’improvviso il silenzio della biblioteca.

Era forte, e la sua eco proveniva dal basso. Era il rumore di un grosso oggetto di metallo che cade su un pavimento di piastrelle Langdon si irrigidì.

Bellamy fece un passo avanti, con aria turbata. «Andiamo via. Presto!»

Katherine seguì Langdon e l’architetto del Campidoglio fuori del grande atrio, in direzione della famosa sala di lettura, che era illuminata. Bellamy chiuse a chiave le due porte: quella esterna e quella interna.

Poi li fece andare al centro della sala, verso un tavolo da lettura. Katherine vide che vi era posata sopra una borsa di pelle con accanto un pacchetto di forma cubica. Bellamy lo prese e lo mise nella borsa, insieme a…

Katherine non credeva ai suoi occhi. Una piramide?

Sebbene non l’avesse mai vista, la riconobbe subito. Lo sapeva: era l’oggetto che le aveva rovinato la vita. Katherine Solomon aveva davanti a sé la leggendaria piramide massonica.

Bellamy chiuse la cerniera e consegnò la borsa a Langdon. «Non perderla di vista neppure per un attimo.»

Le porte esterne vibrarono per un’esplosione. Pochi istanti dopo si sentì un rumore di vetri infranti.

«Da questa parte!» Bellamy si voltò di scatto, spaventato, e corse verso il banco della distribuzione al centro della sala ottagonale. C’erano otto postazioni di lavoro intorno a un grande mobile centrale. Bellamy indicò loro una porticina nel mobile. «Infilatevi lì dentro!»

«Lì dentro?» chiese Langdon stupefatto. «Ci troveranno di sicuro!»

«Fidati di me» replicò Bellamy. «Non è come pensi.»

57

Mal’akh lanciò la limousine verso Kalorama Heights. L’esplosione nel laboratorio di Katherine Solomon era stata più devastante del previsto, e lui era stato fortunato a uscirne indenne. Aveva approfittato della confusione per fuggire indisturbato ed era sfrecciato come un razzo oltre la guardiola, dove l’addetto alla sicurezza parlava concitato al telefono.

Devo togliermi dalla strada, pensò. Anche ammesso che Katherine non l’avesse ancora chiamata, la polizia sarebbe di certo intervenuta. E uno che guida una limousine a torso nudo non passa inosservato.

Dopo tanti anni di preparazione, gli sembrava incredibile essere arrivato alla sera fatidica. Era stato un percorso lungo e difficile. Il viaggio iniziato tanti anni fa nella disperazione stasera finirà in gloria.

Era cominciato tutto ai tempi in cui lui non si chiamava ancora Mal’akh. Quella sera non aveva neppure un nome: era semplicemente il detenuto numero 37. Come quasi tutti gli altri prigionieri del brutale carcere di Kartal, a Istanbul, era stato condannato per possesso di sostanze stupefacenti.

Era steso sulla branda in una cella di cemento, affamato, infreddolito, al buio, e si chiedeva quanto tempo ancora sarebbe dovuto rimanere lì dentro. Il suo nuovo compagno di cella, conosciuto solo ventiquattr’ore prima, dormiva nella branda sopra di lui. Il direttore del carcere, un ciccione alcolizzato che detestava il proprio lavoro e sfogava la frustrazione sui detenuti, aveva appena spento le luci per la notte.

Erano quasi le dieci quando il detenuto numero 37 aveva sentito l’eco di due voci nel condotto di ventilazione. Una era chiaramente quella stridula e prepotente del direttore, che non doveva aver gradito di essere stato scomodato a quell’ora da un visitatore. "Ho capito che ha fatto un sacco di strada, ma per tutto il primo mese le visite sono vietate" stava dicendo. "E il regolamento, e non si fanno eccezioni."

L’altra voce, bassa e raffinata, era piena di angoscia. "Vorrei che mio figlio non corresse rischi."

"È un drogato."

"Lo state trattando bene?"

"Abbastanza. Non siamo al grand hotel."

Cera stata una piccola pausa. "Il dipartimento di Stato americano chiederà l’estradizione, lei lo sa."

"Sì, sì. Succede sempre. Verrà concessa, ma la pratica richiede quindici giorni, un mese… dipende."

"Da cosa?"

"Be’, sa, il personale è insufficiente" aveva risposto il direttore. E, dopo un attimo di silenzio, aveva aggiunto: "Naturalmente, a volte le persone come lei fanno una piccola donazione, per incentivare i dipendenti ad accelerare le procedure".

Il visitatore non aveva risposto.

"Signor Solomon, per uno come lei, che non ha problemi di soldi, la soluzione si trova sempre" aveva continuato il direttore, abbassando la voce. "Io ho dei contatti. Se ci mettiamo d’accordo, io e lei, potrei far uscire suo figlio… anche domani, come se niente fosse successo. Prosciolto completamente. Non verrebbe processato nemmeno in patria."

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