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La rampa era ripida, le pareti di cemento erano lambite da una luce azzurrognola che pareva provenire dal basso. L’aria che saliva era tiepida e acre, carica di una strana miscela di odori… quello pungente di sostanze chimiche, quello dolce dell’incenso, quello muschiato del sudore umano e, dominante sopra tutti, l’odore inconfondibile della paura. Una paura viscerale, animale.

«La tua scienza mi ha colpito» sussurrò l’uomo quando arrivarono in fondo alla rampa. «Spero che la mia colpisca te.»

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L’agente della CIA Turner Simkins, appostato nell’oscurità del giardino di Franklin Square, teneva gli occhi puntati su Warren Bellamy. Nessuno aveva ancora abboccato all’amo, ma era presto.

La ricetrasmittente emise un bip e lui l’attivò, sperando che uno dei suoi uomini avesse visto qualcosa. Invece era Sato, con nuove informazioni.

Simkins rimase in ascolto, condividendo la sua preoccupazione. «Un momento» disse. «Vedo se riesco a trovare un punto di osservazione.» Strisciò fuori dai cespugli tra i quali si era nascosto e si voltò a guardare nella direzione da cui era entrato nella piazza. Dopo qualche contorsione, finalmente riuscì ad avere la visuale libera.

Oh, merda.

Si ritrovò a guardare un edificio che sembrava un’antica moschea. La facciata moresca, stretta fra due costruzioni molto più alte, era coperta di piastrelle lucide di terracotta disposte a formare complessi motivi colorati. Sopra i tre grandi archi, due ordini di finestre a ogiva davano l’illusione che da un momento all’altro arcieri arabi potessero lanciare una pioggia di frecce su chiunque si fosse avvicinato.

«Lo vedo» disse Simkins.

«Qualche movimento?»

«Niente.»

«Bene. Devi cambiare posizione e sorvegliarlo. L’Almas Shrine Tempie è la sede di un ordine mistico.»

Simkins lavorava da molto tempo nella zona di Washington, ma non conosceva quel tempio né gli risultava che in Franklin Square ci fosse la sede di qualche antico ordine mistico.

«L’edificio» proseguì Sato «appartiene a un gruppo chiamato Antico ordine arabo dei nobili del mistico velo.»

«Mai sentiti nominare.»

«Io credo di sì» disse Sato. «Sono un’emanazione della massoneria, più comunemente noti come Shriners.»

Simkins lanciò un’occhiata perplessa in direzione dell’edificio riccamente decorato. Gli Shriners? Quelli che costruiscono ospedali per bambini? Non riusciva a immaginare un "ordine" meno sinistro di quello, una confraternita di filantropi che partecipavano alle parate con piccoli fez rossi.

In ogni caso, le preoccupazioni di Sato erano fondate. «Direttore, se il nostro uomo si rende conto che questo edificio è "L’Ordine" in Franklin Square, non avrà più bisogno dell’indirizzo. Non si presenterà all’appuntamento e andrà direttamente nel posto giusto.»

«Lo penso anch’io. Tieni d’occhio l’ingresso.»

«Sì, capo.»

«Notizie dall’agente Hartmann?»

«No, capo. Aveva istruzioni di chiamare lei.»

«Be’, non l’ha fatto.»

Strano, pensò Simkins guardando l’orologio. È in ritardo.

100

Robert Langdon giaceva nudo e tremante nell’oscurità più assoluta. Paralizzato dalla paura, adesso non urlava più, non tempestava più di pugni le pareti. Aveva chiuso gli occhi e si sforzava di controllare il respiro affannoso e il battito impazzito del cuore.

Sei sdraiato sotto un immenso cielo notturno, si disse cercando di convincersi. Sopra di te non c’è altro che una vasta distesa di spazio aperto.

Questa immagine rassicurante, insieme a una tripla dose di Valium, gli aveva di recente permesso di sopravvivere a una risonanza magnetica. Quella notte, però, non funzionava.

Il pezzo di stoffa che Katherine Solomon aveva in bocca era scivolato verso la trachea e minacciava di soffocarla. L’uomo l’aveva portata giù di peso per una stretta rampa e lungo un corridoio sotterraneo immerso nel buio. In fondo, Katherine aveva intravisto una strana luce violacea, ma non erano arrivati fin lì. L’uomo si era fermato prima, davanti a una stanzetta, era entrato e l’aveva fatta sedere su una sedia di legno, con le braccia dietro lo schienale in modo che non si potesse muovere.

Adesso Katherine sentiva il filo metallico affondarle sempre più nei polsi, ma il dolore era niente in confronto al panico crescente causato dalla sensazione di non riuscire più a respirare. Il pezzo di stoffa si spostava sempre più indietro e, di riflesso, le venne un conato. Le si oscurò la vista.

Alle sue spalle, l’uomo tatuato chiuse la porta della stanza e accese la luce. A Katherine lacrimavano gli occhi e non riusciva più a distinguere gli oggetti. Ci vedeva doppio.

Le apparve l’immagine distorta di un corpo dipinto e batté le palpebre: ebbe l’impressione di essere sul punto di svenire. Un braccio coperto di scaglie le strappò via lo straccio dalla bocca. Katherine inspirò a fondo, tossendo e boccheggiando mentre i polmoni si riempivano di aria preziosa. Lentamente, la vista si schiarì e lei si ritrovò davanti il volto di un demone. Cera poco di umano in quella faccia. Il collo, il viso e la testa rasata erano coperti da una stupefacente composizione di tatuaggi raffiguranti strani simboli. Sembrava che ogni centimetro del corpo fosse tatuato, a parte un piccolo cerchio sulla sommità del capo. Un’enorme fenice a due teste la guardava minacciosa con gli occhi in corrispondenza dei capezzoli, simile a un avvoltoio famelico in paziente attesa della sua morte.

«Apri la bocca» sussurrò l’uomo.

Katherine fissò il mostro provando una violenta repulsione. Cosa?

«Apri la bocca» ripetè l’uomo. «Altrimenti ti rimetto lo straccio in gola.»

Tremando, Katherine dischiuse le labbra. L’uomo allungò l’indice carnoso e tatuato e glielo ficcò in bocca. Quando le sfiorò la lingua, lei fu lì lì per vomitare. Poi lui lo estrasse, lo avvicinò alla sommità del capo e, chiudendo gli occhi, se lo passò ripetutamente sul cerchio non tatuato.

Katherine distolse lo sguardo, schifata.

La stanza sembrava un locale caldaia: tubazioni alle pareti, gorgogli, luci al neon. Prima di riuscire a farsi un’idea del luogo in cui si trovava, però, le cadde lo sguardo su qualcosa per terra accanto a lei. Era una pila di vestiti: un maglione dolcevita, una giacca di tweed, dei mocassini, un orologio di Topolino.

«Mio Dio!» Voltò la testa verso l’animale tatuato di fronte a lei. «Cos’hai fatto a Robert?»

«Ssh» sussurrò l’uomo. «Piano, altrimenti ti sente.» L’uomo si scostò di lato e indicò un punto dietro di sé.

Ma Langdon non c’era. Katherine vide solo un grosso contenitore nero di fibra di vetro chiuso da due robusti ganci di metallo. La forma aveva un’inquietante somiglianza con le casse in cui vengono rimpatriati i corpi dei soldati morti in guerra.

«È lì dentro?» esclamò Katherine. «Ma… soffocherà!» «No» ribatté l’uomo indicando una serie di tubi trasparenti

che correvano lungo la parete e si infilavano nella cassa. «Però

arriverà ad augurarselo.»

Nell’oscurità più totale, Langdon si sforzava di decifrare le vibrazioni attutite che gli giungevano dall’esterno. Voci? Cominciò a battere contro la cassa e a gridare con quanto fiato aveva in corpo. «Aiuto! Mi sentite?»

In lontananza, una voce gridò: «Robert! Mio Dio, no! No!».

Conosceva quella voce. Era Katherine, e sembrava terrorizzata. Ciò nonostante, quel suono lo risollevò. Langdon inspirò a fondo per chiamarla, ma si bloccò, avvertendo un’inaspettata sensazione alla nuca. Sembrava che dal fondo della scatola arrivasse una debole brezza. Com’è possibile? Rimase immobile per valutare meglio la situazione. Sì, è proprio così. I capelli erano accarezzati da una corrente d’aria.

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