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«Lei non ha mentito, signore, sono stato io; e mi dimetterò se…»

«Larry, non capisci. Ho cercato di esercitare il mio mandato sulla base della sincerità e della correttezza! Per Dio! Ieri sera tutto sembrava onesto, nobile, e adesso vengo a sapere che ho ingannato il mondo intero?»

«Solo una piccola menzogna, signore.»

«Non esistono piccole menzogne, Larry» disse Herney, furente.

Ekstrom ebbe la sensazione che il piccolo cubicolo nel quale si trovava lo stesse per stritolare. C'era ancora così tanto da riferire, ma capì che avrebbe dovuto attendere fino al mattino.

«Mi dispiace d'averla svegliata, signore. Pensavo che lei dovesse esserne informato.»

Dall'altra parte di Washington, Sedgewick Sexton trangugiò un altro cognac e misurò il suo appartamento con crescente irritazione.

"Dove diavolo è finita Gabrielle?"

112

Gabrielle Ashe era seduta, nell'oscurità, al tavolo del senatore Sexton. Fissava il computer con aria depressa e allo stesso tempo minacciosa.

PASSWORD NON VALIDA — ACCESSO NEGATO.

Aveva provato altre parole d'ordine, che le erano sembrate promettenti, ma nessuna aveva funzionato. Dopo aver esplorato l'ufficio in cerca di cassetti aperti o di un qualunque indizio, Gabrielle si era quasi data per vinta. Stava per andarsene quando il suo sguardo cadde su qualcosa di strano che scintillava sul calendario da tavolo di Sexton. Qualcuno aveva tracciato un cerchio sulla data delle elezioni con un evidenziatore rosso, bianco e blu. Gabrielle avvicinò a sé l'oggetto. Una luccicante e ornata esclamazione blasonava il datario: POTUS!

Evidentemente l'effervescente segretaria di Sexton aveva tracciato con inchiostro luccicante un altro incoraggiamento all'ottimismo.

La sigla POTUS — President of the United States - era il nome in codice assegnato dai servizi segreti americani al presidente degli Stati Uniti. Il giorno delle elezioni, se tutto fosse andato come doveva, Sexton sarebbe diventato il nuovo POTUS.

Preparandosi a uscire, Gabrielle rimise a posto il calendario sulla scrivania e si alzò. Poi si bloccò di scatto per voltarsi verso lo schermo del computer.

DIGITARE PASSWORD.

Guardò di nuovo il calendario.

POTUS.

Sentì crescere la speranza, POTUS le sembrò la password perfetta: semplice, ottimista, autoreferenziale. Batté velocemente sui tasti. Trattenendo il fiato, premette INVIO. Il computer fece bip.

PASSWORD NON VALIDA — ACCESSO NEGATO.

Le cascarono le braccia e rinunciò. Era diretta verso la porta del bagno per uscire da dove era entrata quando squillò il cellulare. Aveva già i nervi a fior di pelle e quel suono la fece sobbalzare. Guardò il prezioso orologio a pendolo Jourdain del senatore. "Quasi le quattro del mattino." Sapeva che a quell'ora poteva trattarsi solo di Sexton. Stava chiaramente chiedendosi dove diavolo fosse finita. "Rispondo o lo lascio suonare?" Se avesse risposto avrebbe dovuto mentire, in caso contrario avrebbe destato sospetti.

Prese la chiamata. «Pronto?»

«Gabrielle?» Sexton sembrava nervoso. «Come mai ci impieghi tanto?»

«Al Roosevelt Memorial il taxi è rimasto bloccato e…»

«Non sembra che tu sia in taxi.»

«Infatti» disse lei, con il cuore che batteva forte. «Ho deciso di passare in ufficio a prendere alcuni documenti sulla NASA che potrebbero essere importanti per il PODS, però non riesco a trovarli.»

«Be', sbrigati. Voglio convocare una conferenza stampa domattina e dobbiamo discutere i particolari.»

«Sarò lì fra poco.»

Ci fu una pausa. «Sei nel tuo ufficio?» Sexton sembrava improvvisamente perplesso.

«Sì. Fra dieci minuti sarò lì.»

Un'altra pausa. «Okay. A presto.»

Gabrielle riappese, troppo preoccupata per notare il caratteristico triplo ticchettio del prezioso orologio a pendolo Jourdain, a pochi metri da lei.

113

Michael Tolland non si accorse che Rachel era ferita finché non vide il sangue sul braccio, mentre la trascinava al riparo del Triton. Capì dallo sguardo inespressivo che non provava alcun dolore.

Sostenendola, si voltò a cercare Corky. L'astrofisico si affannò attraverso il ponte per raggiungerli, gli occhi vacui per il terrore.

"Dobbiamo trovare un nascondiglio" pensò Tolland, senza ancora afferrare appieno l'orrore di quanto era appena successo. Istintivamente, i suoi occhi scalarono l'ordine di ponti sovrastanti. Le scalette che salivano al ponte di comando erano tutte all'aperto, e la plancia era una struttura a vetri: per l'elicottero, un bersaglio trasparente. Salire sarebbe stato un suicidio; non restava che una sola via di scampo.

Per un breve instante, Tolland contemplò l'idea di scappare sott'acqua con il Triton, al riparo dai proiettili. "Assurdo." Il batiscafo poteva ospitare soltanto una persona e il verricello impiegava dieci minuti buoni a calarlo attraverso la botola, nell'oceano, dieci metri più in basso. Inoltre, con le batterie e i compressori scarichi, il Triton avrebbe solo galleggiato nell'acqua, come un pezzo di sughero.

«Arrivano!» gridò Corky, indicando il cielo, con la voce stridula di paura.

Tolland non rivolse nemmeno lo sguardo verso l'alto. Indicò una vicina paratia, lungo la quale una rampa scendeva sottocoperta. Corky non ebbe bisogno d'incoraggiamento. A testa bassa, sgambettò verso l'apertura e scomparve al di sotto. Tolland cinse con fermezza la vita di Rachel e lo seguì. Ripararono sottocoperta, proprio mentre l'elicottero ritornava, sventagliando il ponte di proiettili.

Quando scesero giù per gli scalini a grata per raggiungere la piattaforma sottostante, Tolland sentì il corpo di Rachel irrigidirsi. Si voltò a guardarla, temendo che fosse stata colpita di rimbalzo da un proiettile, ma quando vide il suo volto si rese conto che si trattava di altro. Seguì il suo sguardo atterrito verso il basso e comprese.

Rachel era paralizzata, incapace di muovere le gambe. Fissava impietrita lo strano mondo sotto di lei.

Per via della sua configurazione SWATH, la Goya non aveva uno scafo vero e proprio ma, piuttosto, poggiava su piloni, come un gigantesco catamarano. Loro erano discesi, attraverso il ponte, su una passerella metallica sospesa sull'abisso, dieci metri sopra il mare infuriato. Il rumore assordante delle onde riecheggiava contro il ponte sovrastante. I fari sottomarini della nave, ancora accesi, proiettavano un bagliore verdastro sulle acque, nelle quali risaltavano i profili spettrali di sei o sette squali martello. I pesci dalle enormi ombre nuotavano controcorrente, senza avanzare, flettendo sinuosamente il corpo elastico.

La voce di Tolland le sussurrò all'orecchio: «Rachel, va tutto bene. Guarda avanti, sono qui vicino a te». La spingeva gentilmente da dietro, cercando di persuadere le sue mani, serrate sul parapetto, a mollare la presa.

Fu allora che Rachel vide una goccia cremisi del suo sangue scorrere lungo il braccio e precipitare attraverso la grata. La seguì mentre cadeva e, senza vederla, intuì il momento esatto del contatto: gli squali si voltarono all'unisono, spinti dalla loro potente coda, scontrandosi in una frenesia torbida di pinne e denti affilati.

"Lobi olfattivi del telencefalo molto sviluppati… Percepiscono l'odore del sangue a un chilometro di distanza."

«Non guardare giù» ripeté Tolland, con voce forte e rassicurante. «Sono qui con te.»

Rachel sentì le mani di lui sui fianchi. Cercando d'ignorare il vuoto sottostante, si avviò giù per la passerella. Udì di nuovo il rumore del rotore dell'elicottero. Corky li precedeva già di molto, barcollando da una sponda all'altra deEa passerella, come ubriaco.

«Scendi le scale, Corky» gli urlò Tolland «poi vai verso l'ultimo pilone!»

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