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Fuori dall'habisfera, il vento catabatico che soffiava impetuoso giù per il ghiacciaio non assomigliava affatto ai venti oceanici ben noti a Tolland. In mare, il vento deriva dalle maree e dai fronti di pressione e arriva a raffiche. Il catabatico, invece, è assoggettato soltanto alle leggi della fisica: forte aria fredda che scende lungo il fianco del ghiacciaio come un'onda di marea. Era il vento più teso che Tolland avesse mai sperimentato. Se avesse soffiato a venti nodi, sarebbe stato il sogno di ogni velista, ma alla velocità di ottanta nodi, come in quel momento, poteva diventare un incubo anche per chi aveva i piedi ben piantati a terra. Fermandosi inclinato all'indietro, Tolland si sentiva sollevare.

A rendere ancora più snervante quell'impetuoso fiume d'aria era la leggera inclinazione della banchisa. Il ghiacciaio digradava leggermente fino all'oceano, distante tre chilometri. Malgrado le punte aguzze dei ramponi Pitbull Rapido, Tolland aveva la fastidiosa sensazione che bastasse un passo falso per essere trascinato dalla burrasca giù per l'interminabile pendio gelato. In quel momento, i due minuti dedicati da Norah Mangor alla lezione di sicurezza sui ghiacciai sembrarono pericolosamente insufficienti.

«Piccozza da ghiaccio Piranha» aveva detto Norah, fissando un leggero attrezzo a forma di T alla cintura di ciascuno, mentre si vestivano nell'habisfera. «Lama standard, lama a banana, martello e ascia. Ricordate soltanto una cosa: se qualcuno scivola o viene colpito da una raffica, afferrate la piccozza con una mano sulla testa e una sul manico, piantate la lama a banana nel ghiaccio e lasciatevi cadere sopra, puntando i ramponi.»

Con quelle parole rassicuranti, Norah Mangor li aveva imbracati e aveva fatto indossare a tutti degli occhialini prima di portarli nel buio del pomeriggio.

In quel momento, le quattro sagome procedevano in fila indiana giù per il ghiacciaio, separate una dall'altra da dieci metri di fune di sicurezza. Norah guidava la cordata, seguita da Corky, Rachel e poi Tolland, che fungeva da ancora.

Allontanandosi dall'habisfera, Tolland avvertì una crescente apprensione. Dentro la tuta gonfiata e calda, si sentiva una sorta di cosmonauta dai movimenti scoordinati che camminasse su un lontano pianeta. La luna era scomparsa dietro pesanti nuvole temporalesche, immergendo la lastra di ghiaccio in un'impenetrabile oscurità. Il vento catabatico sembrava rinforzare di minuto in minuto, esercitando una costante pressione sulla sua schiena. Mentre sforzava gli occhi per vedere la grande distesa deserta attorno a sé, cominciò a percepire la pericolosità del luogo. Quali che fossero le normative di sicurezza della NASA, non si capacitava che il direttore avesse messo a rischio quattro vite anziché due, tanto più che erano coinvolti la figlia di un senatore e un famoso astrofisico. Non fu sorpreso di provare quell'ansia protettiva nei confronti di Rachel e Corky. Abituato a essere il capitano della nave, si sentiva responsabile per chi aveva intorno.

«State dietro di me» gridò Norah, ma la sua voce venne inghiottita dal vento. «Fatevi guidare dalla slitta.»

La slitta di alluminio su cui Norah trasportava l'attrezzatura assomigliava a una gigantesca slitta per bambini. Conteneva gli strumenti diagnostici e gli accessori di sicurezza da lei usati sul ghiacciaio nei giorni precedenti, il tutto — batterie, torce di segnalazione e un potente riflettore montato sul davanti — assicurato sotto un'incerata. Malgrado il peso, la slitta scivolava senza sforzo in avanti, per tratti lunghi e dritti. Anche su inclinazioni quasi impercettibili, continuava a scendere, e Norah la teneva senza rallentarla troppo, quasi permettendole di guidarli sulla strada.

Tolland si guardò alle spalle, percependo la distanza crescente tra il gruppo e l'habisfera. La pallida cupola arcuata era stata inghiottita dal buio, malgrado si trovasse soltanto a una quarantina di metri da loro.

«Non ti preoccupa come faremo a ritrovare la strada del ritorno?» gridò Tolland. «L'habisfera è quasi invi…» Le sue parole furono interrotte dal forte sibilo di una torcia accesa nella mano di Norah. L'improvvisa luce bianca e rossa illuminò la banchisa per un raggio di dieci metri. Con il tallone, Norah scavò un piccolo buco nella neve, formò una barriera di protezione sul lato controvento e piantò la torcia nella rientranza.

«Briciole di pane ad alta tecnologia» gridò.

«Briciole di pane?» chiese Rachel riparandosi gli occhi dall'improvviso chiarore.

«Hansel e Gretel» urlò Norah. «Queste torce resteranno accese un'ora, tutto il tempo per ritrovare la strada del ritorno.»

Detto questo, riprese a guidarli sul ghiacciaio, di nuovo nel buio.

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Gabrielle Ashe uscì come una furia dall'ufficio di Marjorie Tench e quasi travolse una segretaria. Davanti a sé, soltanto le immagini mortificanti di un groviglio di braccia e gambe. Visi in estasi.

Non aveva idea di come avessero potuto scattarle, ma non c'erano dubbi sul fatto che fossero vere. Forse erano state riprese dall'alto, da una telecamera nascosta nell'ufficio del senatore Sexton. "Dio mi aiuti." In una foto, Gabrielle e Sexton erano impegnati in un atto sessuale proprio sopra la scrivania del senatore, i corpi abbandonati su una quantità di documenti dall'aria ufficiale.

Marjorie Tench la raggiunse fuori dalla Sala delle mappe, con in mano la cartellina rossa. «Dalla sua reazione deduco che le ritiene autentiche.» Il consigliere del presidente aveva tutta l'aria di divertirsi un mondo. «Spero solo che servano a persuaderla che anche gli altri dati in nostro possesso sono veri. Provengono dalla stessa fonte.»

Gabrielle si sentì avvampare in tutto il corpo mentre percorreva il corridoio a lunghi passi. "Dove diavolo è l'uscita?"

La Tench, con le sue lunghe gambe, non aveva difficoltà a starle dietro. «Il senatore Sexton ha giurato al mondo intero che tra voi due non c'è assolutamente nulla di fisico. La dichiarazione rilasciata alla televisione è stata decisamente convincente.» La Tench indicò verso il suo ufficio con aria compiaciuta. «A proposito, ho anche un nastro registrato, se ha voglia di rinfrescarsi la memoria.»

Gabrielle non ne aveva bisogno. Ricordava fin troppo bene la conferenza stampa e Sexton che negava con sentita indignazione.

«Purtroppo» continuò la Tench, in tono tutt'altro che dispiaciuto «il senatore Sexton ha mentito spudoratamente agli americani guardandoli negli occhi. Il pubblico ha diritto di saperlo, e lo saprà. La sola questione da decidere, ora, è come deve scoprirlo. Noi riteniamo preferibile che sia lei a parlarne.»

Gabrielle apparve esterrefatta. «Davvero mi ritiene disposta a contribuire al linciaggio del mio candidato?»

Il viso della Tench si indurì. «Sto cercando di fare la scelta migliore, Gabrielle. Risparmierà a tutti molto imbarazzo se lei, a testa alta, confesserà la verità. Per me è sufficiente che firmi una dichiarazione in cui ammette la relazione.»

Gabrielle si fermò di colpo. «Cosa?»

«Certo. Una dichiarazione firmata darà a noi la possibilità di trattare con il senatore in modo discreto, risparmiando così al paese questa brutta storia. La mia proposta è semplice: firmi la dichiarazione e queste foto non saranno mai tirate fuori.»

«Vuole una dichiarazione?»

«Tecnicamente mi servirebbe una confessione giurata, ma poiché qui non abbiamo un notaio…»

«Lei è pazza.» Gabrielle aveva ripreso a camminare.

La Tench proseguì al suo fianco, ormai spazientita. «Gabrielle, il senatore cadrà, in un modo o nell'altro, e io le sto offrendo la possibilità di tirarsi fuori da questa storia senza vedere il suo culo nudo sui giornali del mattino! Il presidente è una persona perbene e non vuole che queste foto siano pubblicate. Se lei confesserà per iscritto, con parole sue, di avere avuto una relazione con Sexton, salveremo almeno un briciolo di dignità.»

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