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Fuori dall'F-14, la luce cominciava a diminuire. Era tardo inverno nell'Artico, un periodo di oscurità quasi perpetua. Rachel comprese di viaggiare verso un mondo di notte perenne.

Con il passare dei minuti, il sole scomparve completamente dietro l'orizzonte. Procedevano sempre verso nord. Sorse la luna a tre quarti, molto luminosa, sospesa nella glaciale aria cristallina. In basso, le onde dell'oceano rilucevano, mentre gli iceberg apparivano come diamanti cuciti su una scura rete di lustrini.

Infine, Rachel individuò il profilo indistinto della terraferma. Ma non era ciò che si aspettava: un'enorme catena montuosa incappucciata di neve si ergeva dal mare.

«Montagne?» chiese confusa. «Ci sono montagne a nord della Groenlandia?»

«Evidentemente» commentò il pilota, in tono altrettanto sorpreso.

Quando il muso dell'F-14 puntò verso il basso, Rachel si sentì stranamente priva di peso. Malgrado il ronzio nelle orecchie, udiva un ripetuto ping elettronico in cabina. Il pilota doveva essersi allineato su qualche raggio direzionale.

Quando scesero sotto i mille metri, Rachel osservò il terreno aspro, illuminato dalla luna. Alla base delle montagne, un grande pianoro coperto di neve si estendeva verso il mare per una quindicina di chilometri prima di terminare bruscamente con una ripida scogliera di ghiaccio solido che precipitava verticalmente in mare.

Fu allora che le vide. Dapprima le attribuì a un effetto della luce lunare. Guardò con attenzione la distesa di neve senza comprendere. Più l'aereo scendeva, più l'immagine diventava nitida.

"Che cosa diavolo sono, in nome di Dio?"

Il pianoro sottostante era a strisce… come se qualcuno avesse dipinto sulla neve tre enormi fasce di colore argento, parallele alle scogliere della costa. Solo quando l'aereo scese sotto i centocinquanta metri, l'illusione ottica si chiarì. Le tre strisce d'argento erano profondi canali, ciascuno ampio almeno dieci metri. Essi si erano riempiti d'acqua che era poi ghiacciata formando nastri argentati che correvano paralleli sul pianoro. I bianchi argini che li separavano erano berme di neve.

Mentre puntava verso il pianoro, l'aereo incappò in una forte turbolenza. Rachel sentì il rumore secco del carrello che scendeva malgrado non si vedesse ancora la pista d'atterraggio. Il pilota era impegnato a mantenere il controllo del velivolo tra scossoni e sussulti. Quando Rachel individuò due linee di luci lampeggianti a cavallo del canale ghiacciato più esterno, comprese con terrore che cosa sarebbe successo.

«Atterriamo sul ghiaccio?» chiese.

Nessuna risposta. Il pilota era concentrato sulle raffiche impetuose. Rachel sentì lo stomaco in gola quando l'aereo decelerò inclinandosi verso il canale ghiacciato. Trattenne il respiro, sapendo che il minimo errore di calcolo avrebbe significato morte certa. L'aereo rullò mentre si infilava tra le alte pareti di neve, e in quel momento la turbolenza scomparve. Al riparo dal vento, il velivolo compì un atterraggio perfetto.

Gli invertitori di spinta rombarono, rallentando il Tomcat. Rachel lasciò andare il respiro. L'aereo procedette per un centinaio di metri prima di arrestarsi davanti a una linea di vernice rossa tracciata sul ghiaccio.

A destra, soltanto un muro di neve illuminato dalla luna, il lato di un argine di ghiaccio. A sinistra, stesso panorama. Solo attraverso il vetro anteriore si aveva qualche visibilità… un'interminabile distesa gelata. A parte la striscia dipinta, non c'era alcun segno di vita.

Poi lo sentì. Un motore in avvicinamento. Un suono acuto, sempre più forte, precedette l'arrivo di un veicolo. Un grande trattore cingolato arrancava verso di loro lungo il lastrone ghiacciato. Alto ed esile, aveva l'aspetto di un insetto futuristico su zampe rotanti. In alto, sul telaio, c'era una cabina chiusa di perspex con una fila di luci a largo fascio che illuminavano il cammino.

Si fermò con un tremito a fianco dell'F-14. La porta della cabina si aprì e una figura scese la scaletta, avvolta da capo a piedi in una voluminosa tuta bianca che dava l'impressione di essere stata gonfiata.

"Mad Max incontra l'omino della Michelin" si disse Rachel, sollevata nel constatare che quello strano pianeta era abitato.

L'uomo segnalò al pilota dell'F-14 di sollevare il tettuccio.

Questi ubbidì e una folata di vento investì Rachel raggelandola fin nelle ossa.

"Chiudi quel dannato coperchio!"

«La signora Sexton?» chiese il nuovo venuto, con accento americano. «Le do il benvenuto a nome della NASA.»

Rachel tremava. "Molte grazie."

«Prego, sganci la cintura, lasci il casco sull'aereo e sbarchi usando i gradini sulla fusoliera. Qualche domanda?»

«Sì» gridò Rachel di rimando. «Dove diavolo mi trovo?»

17

Marjorie Tench, consigliere del presidente, era una creatura allampanata e scheletrica. Un metro e ottanta di giunture e arti, sembrava costruita con il Meccano. Sospeso sul corpo vacillante, un viso itterico, incartapecorito, perforato da due occhi privi di emozione. Aveva cinquantun anni, ma ne dimostrava settanta.

La Tench era considerata a Washington la dea dell'arena politica. Si diceva che fosse dotata di capadtà analitiche al limite della chiaroveggenza. I dieci anni trascorsi all'ufficio di intelligence e ricerca del dipartimento di Stato l'avevano aiutata ad acquisire doti intellettive straordinariamente acute. Purtroppo, la sua intelligenza politica era accompagnata da un temperamento gelido che pochi tolleravano per più di qualche minuto. Marjorie Tench aveva la fortuna di possedere il cervello di un supercomputer, ma ne aveva anche lo stesso calore umano. Tuttavia, il presidente Zach Herney non aveva difficoltà a sopportare le idiosincrasie della donna, perché era proprio grazie alle sue doti intellettuali e al suo strenuo impegno che lui era riuscito ad assurgere alla massima carica dello Stato.

«Marjorie.» Il presidente si alzò per accoglierla nello Studio Ovale. «Che cosa posso fare per lei?» Non la invitò a sedere. Le tipiche regole formali non si confacevano a donne come Marjorie Tench. Se voleva una sedia, la prendeva da sola.

«Ho visto che ha fissato la riunione con lo staff per oggi pomeriggio alle quattro.» Aveva la voce rauca della fumatrice incallita. «Ottimo.»

Fece una pausa e Herney ebbe l'impressione di percepire il lavorio dei complessi ingranaggi della sua mente. Ne fu contento. Marjorie Tench era uno dei pochissimi dello staff presidenziale a essere a conoscenza della scoperta della NASA e, grazie al suo acume politico, lo aiutava a mettere a punto la strategia più opportuna.

«Per il dibattito alla CNN, oggi alle quattordici» disse la Tench, tra colpi di tosse «chi mettiamo in campo contro Sexton?»

Herney sorrise. «Un portavoce di secondo piano.» La tattica di frustrare il "cacciatore" mandandogli una preda poco ambita era vecchia come i dibattiti politici.

«Io avrei un'idea migliore.» Lo fissò negli occhi. «Mandi me sotto i riflettori.»

Herney alzò di scatto la testa. «Lei?» "Ma che diavolo le salta in mente?" «Marjorie, lei non si occupa dei media, e inoltre è una trasmissione via cavo nella fascia del mezzogiorno. Se mandassi il mio consigliere, daremmo l'impressione di essere in preda al panico.»

«Esatto.»

Herney la studiò con attenzione. Quale che fosse il suo piano contorto, per nessuna ragione al mondo le avrebbe permesso di apparire alla CNN. Bastava posare una sola volta gli occhi su Marjorie Tench per capire perfettamente che c'era una buona ragione se lavorava dietro le quinte. Il suo aspetto incuteva paura; non era a un viso come quello che un presidente affidava il compito di comunicare il messaggio della Casa Bianca.

«Intervengo io al dibattito della CNN» ripeté lei. A quel punto, la sua non era più una domanda.

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