Forse, per qualche ragione, gli sfiatatoi erano aperti. Tolland non riusciva a spiegarsene il perché. In precario equilibrio sulla piattaforma del motore tastò uno dei più piccoli serbatoi di zavorra, ormai sommersi. Le valvole di sfiato erano chiuse, ma le sue dita trovarono dell'altro.
Fori di proiettile.
"Merda!" Il Triton era stato crivellato di pallottole quando Rachel vi era saltata dentro. Tolland si tuffò immediatamente e nuotò sotto il batiscafo, passando le dita sulla superficie della più importante cassa di zavorra, quella di immersione rapida. Gli inglesi la chiamavano "il rapido per il Sud" e i tedeschi "le scarpe di piombo". In entrambi i casi, il significato era lampante: quando era piena, la cassa faceva inabissare il batiscafo.
Sul fianco della cassa, le sue dita trovarono decine di buchi.
Sentiva l'acqua entrare a fiotti. Senza che lui potesse impedirlo, il Triton era in procinto di affondare.
Il batiscafo era, adesso, a un metro di profondità. Verso prua, Tolland accostò il volto alla cupola e scrutò all'interno. Rachel gridava disperata, picchiando sul perspex. La sua paura lo fece sentire impotente. Si ritrovò per un istante in un freddo ospedale, al capezzale della donna che amava, conscio di non poter fare niente per aiutarla. Sospeso nell'acqua, vicino al batiscafo che affondava, Tolland pensò che non lo avrebbe sopportato. Non una seconda volta. "Sei un sopravvissuto" gli aveva detto Celia, poco prima di morire. Ma lui non voleva sopravvivere da solo… di nuovo.
I polmoni gli dolevano per la mancanza d'aria, ma rimase con lei. Ogni volta che il pugno di Rachel colpiva il perspex, Tolland sentiva l'aria salire gorgogliando in superficie, e il battello sembrava affondare di più. Rachel gridò qualcosa a proposito dell'acqua che entrava dalla montatura della cupola.
La finestra d'osservazione perdeva.
"Un foro di proiettile nel perspex?" Molto improbabile.
Tolland doveva riemergere, sentiva i polmoni sul punto di scoppiare. Risalì tastando la grande cupola di plastica trasparente con le palme delle mani e le sue dita sfiorarono un pezzetto di gomma. Evidentemente, la guarnizione attorno all'oblò si era danneggiata nella caduta. Per questo l'abitacolo faceva acqua. Un'altra cattiva notizia.
Arrivato in superficie, Tolland prese tre respiri profondi, cercando di schiarirsi le idee. L'acqua che stava entrando avrebbe solo accelerato la discesa del Triton. Il batiscafo era già più di un metro e mezzo sotto la superficie. Tolland riusciva a malapena a sfiorarlo con i piedi. Sentiva Rachel battere disperatamente i pugni sulla parete dello scafo.
Gli venne un'idea: raggiungere il vano del motore e localizzare la bombola di aria compressa; forse avrebbe potuto usarla per svuotare dall'acqua la cassa di immersione rapida. Probabilmente si sarebbe rivelato un tentativo inutile, ma almeno avrebbe mantenuto il Triton vicino alla superficie per qualche minuto, prima che il cassone bucato riprendesse a riempirsi.
E poi?
Al momento quella gli parve la sua unica possibilità. Per prepararsi all'immersione, inspirò molto profondamente, espandendo i polmoni fino al limite. "Più capacità polmonare, più ossigeno, immersione più lunga" pensò. Ma, gonfiandosi e sentendo la pressione crescere nel torace, concepì una strana idea: e se avesse aumentato la pressione dentro l'abitacolo? Forse avrebbe potuto far saltare l'intera cupola, che già non era più chiusa ermeticamente, ed estrarre Rachel.
Espirò e rimase in superficie, cercando di valutare la fattibilità dell'idea. Sembrava perfettamente logica. Dopotutto, i sottomarini sono progettati per resistere alla pressione solo in un senso. Devono sopportare un'enorme forza dall'esterno, ma pochissima dall'interno.
Inoltre, le valvole installate sul batiscafo erano tutte uguali: un accorgimento per semplificare la manutenzione. Tolland avrebbe potuto staccare il tubo che serviva a riempire la bombola di aria compressa e collegarlo a una delle valvole di aerazione di sinistra. Rachel avrebbe avvertito un forte dolore, ma la pressurizzazione della cabina forse le avrebbe aperto una via di scampo.
Michael si riempì i polmoni e si tuffò.
Il batiscafo era adesso a un paio di metri. L'oscurità e la corrente rendevano difficile orientarsi.
Tolland trovò il serbatoio d'aria compressa e ridiresse il tubo, collegandolo alla valvola nella cupola. Strinse la valvola, preparandosi a pompare aria nell'abitacolo. Un segnale di pericolo, scritto a lettere gialle catarifrangenti sulla grossa bombola, gli ricordò quanto fosse rischiosa la manovra che stava per compiere: PERICOLO: ARIA COMPRESSA A 200 ATMOSFERE.
"Duecento atmosfere. Più di duecento chili per centimetro quadrato" pensò. Se la cupola del Triton non fosse stata soffiata via dalla pressione, i polmoni di Rachel si sarebbero schiantati. Praticamente, era come pompare con un idrante acqua ad altissima pressione in un palloncino nella speranza che questo scoppiasse presto.
Decise di agire. Sospeso sulla groppa del Triton, aprì la valvola. Il tubo si irrigidì e Tolland sentì l'aria che, con enorme forza, invadeva il batiscafo.
Nell'abitacolo, Rachel avvertì una fitta lancinante alla testa. Spalancò la bocca per urlare, ma l'aria si aprì la strada nei suoi polmoni con tanta pressione che le parve di scoppiare. Le sembrò che gli occhi le venissero spinti dentro il cranio. Un rombo assordante le risuonò nei timpani, portandola sull'orlo dello svenimento. Istintivamente sollevò le mani alle orecchie. Il dolore aumentava.
Udì un colpo provenire direttamente da un punto davanti a lei. Sforzandosi di tenere gli occhi aperti, scorse la confusa sagoma di Michael Tolland nel buio. Con il volto contro il vetro, le stava segnalando qualcosa.
"Ma cosa?"
Nell'oscurità, riusciva a malapena a distinguerlo. Aveva la vista annebbiata per via della deformazione delle cornee dovuta alla pressione; ciononostante si rendeva conto che il Triton era affondato sotto le ultime tremolanti dita di luce dei fari sottomarini della Goya. Intorno a lei, solo un abisso senza fine, nero come l'inchiostro.
Tolland si distese sulla cupola del Triton e continuò a battere i pugni sul perspex. Il petto gli bruciava per il bisogno d'aria, e presto sarebbe dovuto ritornare in superficie.
"Spingi sul vetro!" le ordinò. Sentiva l'aria compressa sfuggire attraverso il bordo del finestrino, dove la guarnizione si era deteriorata, e risalire sotto forma di bollicine. A tastoni andò in cerca di un appiglio, una fessura sotto cui insinuare le dita. Niente.
Mentre esauriva l'ossigeno, perse la visione periferica. Colpì il perspex un'ultima volta. Non riusciva neanche più a vederla. Troppo buio. Con quel poco di aria che gli rimaneva nei polmoni urlò sott'acqua.
«Rachel… spingi… sul… vetro!»
Le sue parole si tramutarono in un sordo e incomprensibile balbettio.