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Un po’ più fiducioso, percorsi la lunga passerella, lasciando che la luce delle finestre mi colpisse. Non c’erano guardie, pareva. Nessuna sentinella. Forse non avremmo avuto bisogno di un diversivo… sarebbe bastato passare con la zattera davanti a quella gente, chiaro di luna o no. Loro sarebbero stati addormentati oppure occupati a bere e a ridere, noi avremmo solo seguito la corrente fin dentro il portale che scorgevo a meno di due chilometri verso nordest, un arco scuro appena accennato contro il cielo pieno di stelle. Giunti al portale, avrei lanciato un segnale su diversa frequenza già predisposta, non per far saltare il plastico, ma per disinnescare i detonatorì.

Guardavo ancora il portale, quando girai l’angolo e andai a urtare un uomo appoggiato alla parete. Altri due erano fermi alla ringhiera e uno di loro, con un binocolo a visore notturno, guardava lontano verso nord. I due erano armati.

— Ehi! — strillò l’uomo che avevo urtato.

— Chiedo scusa — dissi. Negli olodrammi non mi era mai accaduto di vedere una scena simile.

I due alla ringhiera portavano a bandoliera un minifucile a fléchettes su cui tenevano appoggiato il braccio, con quell’indifferente arroganza che i militari hanno professato per innumerevoli secoli. Nessuno dei due spostò il fucile in modo che la canna puntasse nella mia direzione. Il terzo, quello che avevo urtato, era stato interrotto mentre si accendeva una sigaretta. Ora agitò il fiammifero per spegnerlo, si tolse di bocca la sigaretta e mi lanciò un’occhiata di storto.

— Cosa fa qui fuori? — m’apostrofò. Era più giovane di me, forse sulla ventina standard, e indossava, lo vidi ora, una variante dell’uniforme della fanteria della Pax, con la striscia da tenente che su Hyperion avevo imparato a salutare. Parlava con una netta inflessione dialettale che non riconobbi.

— Prendo un po’ d’aria — risposi, con una scusa zoppicante. Una parte della mia mente pensò che un vero Eroe avrebbe già estratto la pistola e fatto fuoco. La parte più furba non prese neppure in considerazione un simile comportamento.

Anche l’altro soldato della Pax spostò la cinghia del fucile. Udii lo scatto della sicura. — È col gruppo Klingman? — domandò, nello stesso dialetto del commilitone. — O con gli Autery? — Non capii se avesse detto "autieri", "attori" o anche "autori". Forse la piattaforma era un campo di concentramento per cattivi scrittori. Forse tra me mi sforzavo di metterla sul ridere, mentre il cuore mi batteva così forte da farmi temere che avrei avuto un attacco cardiaco proprio davanti a loro.

— Klingman — dissi, cercando d’essere il più conciso possibile. Ero sicuro di non parlare il dialetto che si sarebbero aspettati.

Il tenente della Pax indicò col pollice la porta più in là. — Conosci le regole. Coprifuoco dopo il buio.

Annuii e cercai d’assumere un’aria contrita. Il bordo del giubbotto sfiorava la fondina appesa al fianco. Forse i tre non avevano visto la rivoltella.

— Andiamo — disse il tenente, movendo di nuovo il pollice verso la porta, ma girandosi per fare strada. I due soldati tenevano ancora la mano sul fucile a fléchettes. Se avessero sparato da quella distanza, per raccogliere i miei resti sarebbe bastato un cucchiaino.

Seguii il tenente lungo la passerella e varcai la porta: non ero mai entrato in una stanza più luminosa e più affollata di quella.

32

Sono stanchi della morte. Dopo otto sistemi stellari in sessantatré giorni, dopo otto orribili morti e otto dolorose risurrezioni, il Padre Capitano de Soya, il sergente Gregorius, il caporale Kee e il lanciere Rettig sono stufi di morire e di rinascere.

Ora, dopo ogni risurrezione, de Soya si mette, nudo, di fronte allo specchio e guarda la propria pelle, arrossata e luccicante come il corpo di chi sia stato scorticato vivo; tocca con cautela il crucimorfo, ora livido, ora scarlatto, sotto la carne del proprio petto. Nei giorni che seguono ogni risurrezione de Soya si sente sconvolto e vede aumentare il tremito delle proprie mani. Le voci gli giungono come da lontano e lui non riesce a concentrarsi, sia che parli con un ammiraglio della Pax, col governatore di un pianeta o con un semplice parroco.

Comincia a vestirsi come un parroco, porta la tonaca e il solino al posto dell’azzimata uniforme di prete-capitano della Pax. Alla cintola ha un rosario e lo recita quasi di continuo, facendo scorrere tra le dita i grani: la preghiera riesce a calmarlo, gli rimette ordine nei pensieri. Ora il Padre Capitano de Soya non sogna più Aenea come se fosse sua figlia; non sogna più Vettore Rinascimento e la propria sorella, Maria. Sogna l’apocalisse: terribili sogni di foreste orbitali in fiamme, di mondi incendiati, di raggi della morte che passano sopra fertili valli coltivate e lasciano solo cadaveri.

Si accorge, dopo il primo mondo del fiume Teti, d’avere sbagliato i calcoli. Due anni standard per controllare duecento mondi, ha detto nel sistema di Vettore Rinascimento, contando per ogni sistema tre giorni di risurrezione, un breve intervallo e poi la traslazione al sistema seguente. Non funziona a questo modo.

Il primo pianeta è Tau Ceti Centro, ex capitale amministrativa dell’estesa Rete dei Mondi dell’Egemonia, a quel tempo residenza di decine di miliardi di persone, circondato da un vero anello di città e di habitat orbitali, servito da ascensori spaziali, da teleporter, dal fiume Teti, dal Grand Concourse, dall’astrotel e da altro ancora… Punto focale per la megasfera del piano dati dell’Egemonia e sede del Palazzo del Governo, dove Meina Gladstone aveva trovato la morte per mano della plebaglia infuriata dopo la distruzione, a opera delle navi della FORCE, dei teleporter della Rete, TC2 era stato duramente colpito dalla Caduta. Quando si era spenta la griglia energetica, gli edifici galleggianti si erano schiantati al suolo. Altri grattacieli, in certi casi alti varie centinaia di piani, erano serviti solo da teleporter e mancavano di scale e di ascensori. Decine di migliaia di persone vi erano morte di fame o erano precipitate, prima d’essere portate in salvo dagli skimmer. Il pianeta non aveva agricoltura propria perché importava il necessario da migliaia di mondi tramite i teleporter a terra e i grandi portali in orbita nello spazio. Su TC2, i Tumulti della Fame erano durati cinquanta anni locali, pari a più di trenta anni standard; al termine, miliardi di persone erano morte per mano umana, aggiungendosi ai miliardi di vittime della carestia.

Tau Ceti Centro era stato un mondo sofisticato e sregolato, ai tempi della Rete. Ben poche religioni non vi avevano attecchito, in genere le più permissive e le più violente… la Chiesa della Redenzione Finale, ossia il culto dello Shrike, era stata popolare fra la gente sofisticata e annoiata. Ma nei secoli dell’espansione dell’Egemonia, l’unico vero oggetto d’adorazione su TC2 era stato il potere: la ricerca del potere, la conquista del potere, il mantenimento del potere. Il potere era stato il dio di miliardi di persone; quando quel dio era venuto a mancare, trascinando nel crollo miliardi di adoratori, i superstiti fra le rovine urbane avevano maledetto i ricordi del potere, mentre si arrabattavano per sopravvivere come contadini all’ombra dei grattacieli marcescenti, mentre tiravano l’aratro negli isolati urbani invasi d’erbacce, fra le autostrade abbandonate e le aviostrade e lo scheletro dei vecchi centri commerciali del Grand Concourse, mentre pescavano carpe nel Teti dove ogni giorno erano passati migliaia di yacht di lusso e di chiatte da diporto.

Tau Ceti Centro era maturo per il cristianesimo della rinascita, per il nuovo cattolicesimo; e quando, sessant’anni standard dopo la Caduta, erano giunti i missionari della Chiesa e la polizia della Pax, la conversione dei pochi miliardi di sopravvissuti era stata sincera e universale. Gli alti edifici a guglia, un tempo sedi commerciali e governative della Rete e ora in rovina, furono infine abbattuti; le loro pietre e i vetri lussuosi e il plastacciaio furono riciclati in grandi cattedrali costruite dalle mani dei nuovi rinati di Tau Ceti, affollate ogni giorno da persone grate e fedeli.

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