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Quando da bambino ascoltavo l’infinita serie di versi di Nonna, chiedevo sempre che mi ripetesse un brano che iniziava così: "Secondo alcuni il mondo finirà nel fuoco, / secondo alcuni finirà nel ghiaccio". Nonna non conosceva il nome del poeta (riteneva che fosse un poeta pre-Egira, un certo Frost, ma anche alla mia tenera età pensavo che quel nome, Gelo, fosse troppo ingegnoso per essere vero, visto che la poesia parlava di fuoco e di ghiaccio), ma la sola idea di un mondo che terminasse o nel fuoco o nel ghiaccio rimase a lungo con me, resistente come il monotono ritmo di quei semplici versi.

Pareva che per me il mondo dovesse terminare nel ghiaccio.

Era buio, sotto la muraglia di ghiaccio, e il freddo era talmente intenso che non trovo parole adeguate a descriverlo. Avevo già sofferto bruciature (una volta, a bordo di una chiatta che risaliva il Kans, l’esplosione di un fornello a gas mi aveva provocato leggere ma dolorose ustioni alle braccia e al torace) perciò conoscevo l’intensità del fuoco. Quel freddo mi pareva altrettanto intenso, una sorta di lenta fiamma che mi tagliava a brandelli le carni.

Mi ero legato la fune intorno al torace, sotto le braccia, e la forte corrente ben presto mi travolse, cosicché mi ritrovai trascinato, piedi in avanti, in un nero condotto; tenni alzate le mani per impedire al viso di urtare contro creste di ghiaccio duro come pietra, con il torace e le ascelle segati dalla stretta corda che A. Bettik, mollandola, usava come freno. Ben presto ebbi le ginocchia lacerate da ghiaccio affilato come lama di rasoio, perché la corrente continuava a scagliarmi sempre più in alto contro l’irregolare soffitto di ghiaccio, come se mi trascinasse su di un terreno sassoso.

Mi ero messo le calze, pensando più al ghiaccio che al freddo, ma quelle facevano ben poco per proteggermi i piedi, mentre sbattevo contro le creste. Portavo anche la biancheria, che però non mi proteggeva dagli aghi di gelo. Intorno al collo avevo la cinghia del ricetrasmettitore, col microfono premuto contro la gola per trasmettere a voce o con le semplici vibrazioni della laringe e i tappi auricolari nelle orecchie. A tracolla, strettamente assicurata con nastro adesivo, portavo la sacca impermeabile con il plastico, i detonatori, una fune e due razzi, aggiunti all’ultimo momento. Legata al polso portavo la piccola torcia laser, il cui raggio sottile tagliava l’acqua nera e si rifletteva sul ghiaccio, ma illuminava ben poco. L’avevo adoperata al risparmio, dopo il Labirinto su Hyperion: le torce manuali erano più utili se regolate sul raggio largo e consumavano meno carica. Il mio laser era quasi inutile come arma da taglio, ma mi sarebbe servito per praticare nel ghiaccio i fori per il plastico.

Se fossi vissuto abbastanza a lungo da praticare fori.

L’unica logica dietro la pazzia di lasciarmi trascinare in quel fiume sotterraneo era quel po’ di conoscenza ricavata dall’addestramento come Guardia Nazionale sull’Artiglio di Ghiaccio nel continente Ursus. Laggiù, nel mar glaciale Zampa d’Orso, dove il ghiaccio si scioglieva e tornava a solidificarsi quasi quotidianamente durante la breve estate antartica, era altissimo il rischio di sprofondare nella sottile crosta ghiacciata. Avevamo imparato che, anche se l’acqua ci avesse trascinati sotto una crosta molto più spessa, c’era sempre un sottile strato d’aria fra il mare e il soffitto di ghiaccio. Dovevamo sollevarci verso quello strato d’aria, sporgere il naso anche se il resto del viso restava sott’acqua e muoverci fino a trovare una fenditura o una parte abbastanza sottile da rompere per venire fuori.

Questa era stata la teoria. L’unica vera occasione per metterla alla prova mi si era presentata mentre facevo parte di una squadra di ricerca che si allargava a ventaglio per trovare il guidatore di uno scarabeo che era uscito dal veicolo, era precipitato a neppure due metri dal punto dove il ghiaccio sorreggeva le quattro tonnellate di macchinario ed era scomparso. L’avevo ritrovato io, a circa seicento metri dallo scarabeo e dal ghiaccio sicuro. Per respirare, aveva sfruttato quella tecnica. Il suo naso premeva ancora contro il ghiaccio troppo spesso… ma la sua bocca era spalancata sott’acqua, il suo viso era bianco come la neve che spazzava il ghiacciaio e i suoi occhi erano congelati e duri come palline di ferro. Cercai di non pensare a quell’esperienza, mentre mi facevo strada verso la superficie lottando contro la corrente, davo strattoni alla corda per segnalare ad A. Bettik di fermarmi e raschiavo il viso contro le schegge di ghiaccio per cercare aria.

C’era un’intercapedine di parecchi centimetri fra l’acqua e il ghiaccio… in massima parte frutto di fenditure che risalivano nell’aria ghiacciata come crepacci al contrario. Aspirai nei polmoni l’aria gelida, con il raggio della torcia laser illuminai le fenditure, poi spostai il raggio avanti e indietro lungo lo stretto tunnel. «Mi riposo un minuto» ansimai. «Sto bene. Quanta strada ho percorso?»

«Circa otto metri» mi mormorò nell’orecchio la voce di A. Bettik.

«Merda» borbottai, dimenticando che l’apparecchio avrebbe trasmesso anche i suoni subvocalici. Mi erano parsi almeno venti o trenta metri. «Bene» trasmisi «sistemerò qui la prima carica.»

Riuscivo ancora a flettere le dita quanto bastava per commutare la torcia laser sull’intensità massima e scavare nel fianco della fenditura una piccola nicchia. Avevo premodellato il plastico e ora lo lavorai, lo sagomai e lo indirizzai. Il materiale era un esplosivo "sagomato", nel senso che l’esplosione si sarebbe scaricata nell’esatta direzione da me predisposta, se i preparativi erano stati eseguiti nel modo corretto. In questo caso avevo fatto in precedenza gran parte del lavoro, sapendo che l’esplosione andava diretta verso l’alto e all’indietro verso la parete di ghiaccio alle mie spalle. Ora puntai precisi filamenti della forza esplosiva: la stessa tecnologia che consentiva a una scarica al plasma di tagliare una lastra d’acciaio come un chiodo rovente lasciato cadere sul burro avrebbe mandato quei filamenti di plasma a trapassare l’incredibile massa di ghiaccio dietro di me. Avrebbe dovuto tagliare gli otto metri di muraglia in piccoli pezzi che sarebbero caduti nel fiume. Contavamo sul fatto che negli anni del terraforming i generatori avessero aggiunto all’atmosfera una quantità d’azoto e d’anidride carbonica sufficiente a impedire che lo scoppio si tramutasse in una massiccia esplosione di ossigeno incendiato.

Poiché sapevo esattamente dove volevo dirigere la forza dello scoppio, la modellatura delle cariche richiese meno di quarantacinque secondi e ben poca destrezza manuale. Tuttavia, quando le minuscole cariche del detonatore furono a posto, tremavo e avevo quasi perduto la sensibilità. Poiché sapevo che la ricetrasmittente non aveva difficoltà a penetrare quella quantità di ghiaccio, impostai nei detonatori il codice prefissato e non usai la miccia contenuta nella sacca.

«A posto» ansimai nel microfono. «Dài corda.»

La folle corsa ricominciò, con la corrente che mi tirava in basso nelle tenebre e mi sbatteva di nuovo contro il soffitto di ghiaccio; e poi l’affannosa ricerca d’aria, gli ordini trasmessi in ansiti, la lotta per vedere e lavorare, mentre venivo prosciugato delle ultime tracce di calore.

Il ghiaccio continuò per altri trenta metri… proprio il limite estremo perché secondo me il plastico avesse l’effetto voluto. Sistemai le cariche in altri due punti, un crepaccio e uno stretto foro scavato nel solido soffitto. Nell’ultimo caso avevo le mani completamente intirizzite (era come se portassi grossi guanti di ghiaccio), ma riuscii a indirizzare l’esplosione a monte e a valle più o meno secondo i giusti vettori. Se presto non ci fosse stata una fine a quella muraglia di ghiaccio, tutto il mio lavoro sarebbe stato inutile. A. Bettik e io avevamo previsto che ci sarebbe toccato usare la scure per spaccare una parte del ghiaccio, ma non avremmo potuto farci strada in tutti quei metri di roba.

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