Gli archivi della Pax su Hyperion hanno riconosciuto con certezza il DNA prelevato sul tappeto hawking e hanno identificato anche l’impronta parziale trovata sulla tazza di caffè. DNA e impronta appartengono allo stesso uomo: Raul Endymion, nato su Hyperion, a.D. 3099, non battezzato, arruolato nella Guardia Nazionale nel mese di Tommaso, a.D. 3115, in azione di guerra con il 23° Reggimento di Fanteria Semovente durante la rivolta di Ursus (tre encomi per atti d’eroismo, in un caso il recupero di un commilitone sotto il fuoco nemico) di stanza a Forte Benjing nell’Artiglio Meridionale del continente Aquila per otto mesi standard, completamento del servizio militare nella Stazione 9 del fiume Kans su Aquila, a pattugliare la giungla e a montare la guardia contro l’attività terroristica dei ribelli nelle vicinanze delle piantagioni di fibroplastica. Grado finale, sergente. Congedato con onore il 15 del mese di Lent, a.D. 3119, luogo di residenza sconosciuto fino a meno di dieci mesi standard fa, quando, il 23 del mese dell’Ascensione, a.D. 3126, è stato arrestato, processato e incarcerato a Port Romance (continente Aquila) per l’omicidio di tale Dabil Herrig, cristiano rinato di Vettore Rinascimento. Gli atti riportano che Raul Endymion ha rifiutato l’offerta della croce ed è stato giustiziato mediante neuroverga una settimana dopo l’arresto, il 30 del mese dell’Ascensione, a.D. 3126. Il cadavere è stato sepolto in mare. Il certificato di morte e l’autopsia sono stati autenticati dall’Ispettore Generale della Pax a Port Romance.
Il giorno seguente si controllano le impronte latenti sull’antica rivoltella cal. 45 ripescata dal fondo dell’oceano: appartengono a Raul Endymion e al tenente Belius.
I frammenti di filo del tappeto hawking non sono identificati con altrettanta facilità dagli archivi della Pax su Hyperion, ma l’impiegato che si è occupato della ricerca ha incluso un appunto manoscritto nel quale dice che un simile tappeto riveste molta importanza nei leggendari Canti composti da un poeta vissuto su Hyperion all’incirca fino al secolo scorso.
Dopo la risurrezione, il sergente Gregorius riposa per alcune ore e vola alla Stazione Tre-due-zero-sei Mediolitorale per fare rapporto. De Soya gli riferisce le varie scoperte. Gli dice pure che venti ingegneri della Pax, impegnati per tre settimane a esaminare il teleporter, non hanno trovato segno che l’antico portale sia entrato in funzione, anche se diversi pescatori, sulla piattaforma quella notte, hanno scorto un vivido lampo. Gli ingegneri riferiscono pure che non c’è modo di mettere le mani nell’antica arcata costruita dal TecnoNucleo, né di stabilire dove il teleporter abbia trasferito eventuali utilizzatori.
— Come su Vettore Rinascimento — commenta Gregorius. — Ma almeno lei ha un’idea di chi ha collaborato alla fuga della bambina.
— Forse — dice de Soya.
— Quell’uomo ne ha fatta, di strada, per venire qui a morire — dice il sergente.
Il Padre Capitano de Soya si lascia andare contro la spalliera. — È proprio morto qui, sergente?
Gregorius non ha risposte.
— Credo — riprende de Soya — che su Mare Infinitum abbiamo terminato. O avremo terminato fra un paio di giorni.
Il sergente annuisce. Dalla fila di finestre, lì nell’ufficio del direttore, vede il vivido bagliore che precede il sorgere delle lune. — Dove andiamo ora, Capitano? Riprendiamo il vecchio schema di ricerca?
Anche de Soya guarda a oriente, aspetta che la gigantesca luna arancione compaia sopra l’orizzonte oscurato. — Non so, sergente — risponde. — Intanto rimettiamo tutto a posto, consegnarne il capitano Powl alla Giustizia della Pax in Orbita Sette e lisciamo le piume al vescovo Melandriano…
— Se possibile — dice il sergente Gregorius.
— Se possibile — conviene de Soya. — Poi salutiamo l’arcivescovo Kelley, torniamo sulla Raffaele e decidiamo dove balzare. Forse sarebbe ora d’elaborare qualche teoria sulla destinazione della bambina, per cercare d’anticiparla, e non limitarsi a seguire lo schema della Raffaele.
— Sissignore — dice Gregorius. Saluta, va alla porta, esita un momento. — E lei ha una teoria, signore? Basata sulle poche cose trovate qui?
De Soya continua a guardare le tre lune che si levano. Non gira la poltrona per guardare in viso il sergente. — Forse — dice. — Solo forse.
36
Facendo forza sulle pertiche fermammo la zattera prima che andasse a sbattere contro la parete di ghiaccio. Avevamo acceso tutte le lanterne e le lampadine elettriche mandavano fasci di luce nell’algida tenebra della caverna di ghiaccio. Volute di nebbia si levavano dalle acque nere e rimanevano sospese sotto il frastagliato soffitto come minacciosi spiriti d’annegati. Sfaccettature di cristallo distorcevano e poi riflettevano i fiochi raggi luminosi, rendendo più fitta l’oscurità delle zone buie.
— Perché il fiume resta liquido? — domandò Aenea, stringendo sotto le ascelle le mani e battendo a terra i piedi. Si era infagottata con tutti i vestiti disponibili, ma non bastava. Il freddo era terribile.
M’inginocchiai sul bordo della zattera, mi portai alle labbra un po’ d’acqua e assaggiai. — Salinità — dissi. — Questo fiume è salato come l’oceano di Mare Infinitum.
A. Bettik illuminò con la torcia la parete di ghiaccio dieci metri più avanti. — Scende fino all’acqua — disse. — E si estende un poco sotto la superficie. Ma il fiume prosegue.
Per un istante ebbi un moto di speranza. — Spegnete le lampade — dissi, notando gli echi nella vaporosa cavità della caverna. — Anche le torce.
Speravo di scorgere nel buio uno scintillio di luce al di là della parete di ghiaccio, o sotto… una speranza di salvezza, un’indicazione che quella caverna di ghiaccio era limitata, che una frana aveva bloccato l’uscita.
Il buio divenne totale. Per quanto aspettassimo, i nostri occhi non si adattavano alla mancanza di luce. Imprecai e rimpiansi il visore notturno che avevo perduto su Mare Infinitum: se lì avesse funzionato, significava che da qualche parte filtrava un po’ di luce. Aspettammo ancora un poco, completamente ciechi. Udivo Aenea tremare, percepivo il vapore del nostro respiro.
— Accendete le luci — dissi alla fine. Non c’era stato il minimo scintillio di speranza.
Illuminammo di nuovo le pareti, il soffitto, il fiume. La nebbia continuò a salire e a condensarsi in prossimità della volta. Ghiaccioli cadevano in continuazione nell’acqua fumante.
— Dove… siamo? — domandò Aenea, sforzandosi senza successo di non battere i denti.
Frugai nello zaino e trovai la termocoperta che mi ero portato, tanto tempo prima, dalla torre di Martin Sileno e infagottai la bambina. — Tratterrà il calore — dissi. — No… tienila.
— Possiamo dividercela.
Mi acquattai accanto al termocubo e lo regolai sul massimo. Cinque delle sei facce di ceramica cominciarono a brillare. — Ce la divideremo quando sarà necessario — dissi. Facendo scorrere il raggio luminoso sulla parete di ghiaccio che ci bloccava la strada, soggiunsi: — Per rispondere alla domanda, presumo che ci troviamo su Sol Draconis Septem. Alcuni miei clienti, i più ricchi e i più duri, vi andavano a caccia di spettri artici.
— Concordo — disse A. Bettik. La pelle azzurra dava l’impressione che l’androide, rannicchiato accanto alla lanterna e al termocubo, fosse più gelato di quanto non mi sentissi io. La microstoffa della tenda si era coperta di ghiaccio ed era fragile come un sottile foglio metallico. — Sol Draconis Septem ha un campo gravitazionale di 1,7 g — proseguì A. Bettik. — Dopo la Caduta, il progetto di terraforming è fallito e a quanto si dice il pianeta è tornato per la maggior parte al precedente stato di iperglaciazione.
— Iperglaciazione? — ripeté Aenea. — Cosa significa? — Grazie alla termocoperta le era tornato un po’ di colore in viso.