Aenea strillò. Non le badai e torsi a due mani i disegni di comando. Ci sollevammo sopra i massi, con una pressione gravitazionale che ci appiattì sul tappeto, e in quel momento vedemmo che eravamo a venti metri dalla parete rocciosa e che volavamo contro di essa. Non c’era tempo per fermarsi.
In teoria, lo sapevo, Sholokov aveva progettato il tappeto hawking per volare anche in verticale, mentre il campo di contenimento impediva al passeggero, vale a dire all’amata nipotina, di cadere all’indietro. In teoria.
Era il momento di mettere alla prova la teoria.
Aenea mi si abbrancò alla cintola, mentre acceleravo in una salita a novanta gradi. Il tappeto sfruttò tutti i venti metri di spazio per iniziare a salire: quando infine fummo in verticale, il granito della parete rocciosa era a qualche centimetro "sotto" di noi. Istintivamente mi piegai tutto in avanti e mi aggrappai al rigido bordo del tappeto, cercando nello stesso tempo di non comprimere i disegni di comando. Altrettanto istintivamente Aenea si sporse e aumentò la stretta da orso sulla mia cintola. Il risultato fu che non riuscii a respirare nel minuto che il tappeto impiegò per superare la parete rocciosa. Durante tutta la salita cercai di non guardarmi alle spalle. Con ogni probabilità, mille e passa metri di vuoto proprio sotto di me sarebbero stati più di quanto il mio coraggio già duramente provato potesse sopportare.
Arrivammo in cima ai dirupi… a un tratto c’erano gradini intagliati nella roccia, terrazze di granito, doccioni. Stabilizzai il tappeto.
Le Guardie Svizzere avevano sistemato posti d’osservazione, stazioni di rilevamento e batterie antiaeree, lì lungo le terrazze e le balconate del lato orientale di Castel Crono. Il castello stesso, intagliato nella pietra della montagna, incombeva su di noi per più di cento metri, con le torrette sporgenti e le balconate proprio sulla nostra testa. In quelle parti piane c’erano altre Guardie Svizzere.
Tutte morte. I cadaveri, ancora rivestiti di armature resistenti all’impatto, giacevano scompostamente nelle inconfondibili posture della morte. Alcuni erano raggruppati; a giudicare dalle sagome sbrindellate, pareva che una granata al plasma fosse esplosa in mezzo a loro.
Ma la corazza personale in dotazione ai soldati della Pax sopporta una granata al plasma anche da quella distanza. Invece i cadaveri erano stati fatti a brandelli.
— Non guardare — dissi, girando solo la testa, mentre diminuivo la velocità e viravo intorno all’estremità meridionale di Castel Crono. Troppo tardi: Aenea guardava a occhi sbarrati.
— Maledetto! — gridò di nuovo.
— Maledetto chi? — domandai; ma in quel momento sorvolammo la zona a giardini nella parte sud di Castel Crono e vedemmo che cosa c’era lì. Scarabei in fiamme e uno skimmer capovolto ingombravano il panorama. Altri cadaveri giacevano come giocattoli sparpagliati da un bambino cattivo. Accanto a una siepe ornamentale c’erano, in pezzi e in fiamme, i resti di una batteria CPB, i cui raggi potevano arrivare a orbite basse.
Librata sulla coda di plasma azzurrino, sessanta metri sopra la fontana centrale, c’era la nave del Console. Il vapore saliva tutt’intorno. A. Bettik, nel vano del portello stagno, ci chiamava a gesti.
Volai direttamente nella camera stagna, a tale velocità che l’androide fu costretto a balzare di lato e noi slittammo davvero lungo il lucido corridoio.
— Via! — gridai. Ma A. Bettik aveva già dato l’ordine, oppure la nave non ne aveva avuto bisogno. I compensatori inerziali impedirono che l’accelerazione ci riducesse a gelatina, ma udimmo il ruggito del motore a fusione-reazione, udimmo l’urlo dell’atmosfera contro lo scafo, mentre la nave del Console saliva lontano da Hyperion ed entrava di nuovo nello spazio, per la prima volta in due secoli.
16
— Per quanto tempo sono rimasto privo di sensi? — domanda il Padre Capitano de Soya, strattonando per il camice il medico.
— Ah… trenta, quaranta minuti, signore — dice il medico. Tenta di liberarsi. Non ci riesce.
— Dove sono? — Ora de Soya sente il dolore. Un dolore fortissimo… dalla gamba si ripercuote in tutto il corpo… ma sopportabile. Non ci bada.
— Sulla San Tommaso Akira, Padre.
— La nave trasporto truppe… — mormora de Soya. Si sente stordito, sconnesso. Si guarda la gamba, ora senza laccio emostatico. La parte inferiore è ancora attaccata alla superiore solo mediante alcuni frammenti di tessuto e di muscolo. De Soya capisce che Gregorius gli ha dato un analgesico, insufficiente a bloccare il torrente di sofferenza, ma sufficiente a dargli quello stordimento narcotico. — Maledizione.
— Purtroppo i chirurghi dovranno amputare — dice il medico. — Le sale operatorie fanno gli straordinari. Lei però è il prossimo, signore. Abbiamo stabilito l’ordine di priorità per garantire il massimo numero di superstiti e…
De Soya si rende conto di stringere ancora il camice del giovane medico. Lo lascia. — No.
— Prego, Padre?
— Mi ha sentito. Niente operazione chirurgica finché non avrò parlato con il capitano della San Tommaso Akira.
— Ma, signore… Padre… morirà, se non…
— Sono già morto una volta, figliolo — dice de Soya. Lotta contro un’ondata di vertigini. — È stato un sergente, a portarmi alla nave?
— Sissignore.
— È ancora qui?
— Sì, Padre, il sergente ha ricevuto punti di sutura per ferite che…
— Lo faccia venire qui immediatamente.
— Ma, Padre, le sue ferite esigono…
De Soya guarda il grado del giovane medico. — Guardiamarina?
— Sissignore?
— Ha visto il diskey papale? — dice de Soya. Ha già controllato; il disco di platino pende ancora dalla catenella infrangibile che porta al collo.
— Sì, Padre, è ciò che ci ha spinto a dare la priorità alla sua…
— Sotto pena di morte… peggio, sotto pena di scomunica, chiuda il becco e mandi subito qui il sergente.
Gregorius si è tolto la corazza da battaglia, ma è sempre un gigante. Il Padre Capitano guarda le fasciature e i medipac provvisori collegati al massiccio corpo del sergente; capisce che Gregorius è rimasto gravemente ferito mentre trasportava lui in salvo. Prende l’appunto mentale di mostrarsi riconoscente… alla prima occasione, non ora. — Sergente!
Gregorius scatta sull’attenti.
— Fai venire qui immediatamente il capitano della nave. Svelto, prima che perda di nuovo i sensi.
Il capitano della San Tommaso Akira è un lusiano di mezz’età, tozzo e robusto come tutti gli originari di Lusus. È completamente calvo, ma sfoggia una barbetta grigia ben curata.
— Padre Capitano de Soya, sono il capitano Lempriere. La situazione al momento è convulsa, signore. I chirurghi mi dicono che lei ha bisogno d’intervento immediato. Come posso esserle utile?
— Mi descriva la situazione, capitano — ordina de Soya. Non ha mai incontrato quell’uomo, ma ha parlato con lui su banda a raggio compatto. Nota il suo tono pieno di deferenza. Con la coda dell’occhio vede il sergente Gregorius dirigersi alla porta. — Rimani, sergente. Capitano? La situazione?
Lempriere si schiarisce la gola. — Il comandante Barnes-Avne è morto. Per quanto ci risulta, anche circa metà delle Guardie Svizzere nella Valle delle Tombe del Tempo sono morte. Arrivano di continuo migliaia di feriti. A terra abbiamo medici che apprestano centri chirurgici mobili e trasportiamo qui i feriti che richiedono interventi urgenti. I cadaveri sono ricoverati ed etichettati per la risurrezione al ritorno su Vettore Rinascimento.
— Vettore Rinascimento? — si stupisce de Soya. Si sente come se galleggiasse nel ristretto spazio dell’anticamera della sala chirurgica. Galleggia davvero… entro i confini del lettino a rotelle. — Che diavolo è successo alla gravità, capitano?
Lempriere ha un pallido sorriso. — Il campo di contenimento è stato danneggiato durante la battaglia, signore. In quanto a Vettore Rinascimento… be’, era la nostra base provvisoria, signore. Gli ordini attuali dicono che dobbiamo tornare lì al termine della missione.