«Schermi FCO puliti» dice la voce del controllore della Tre-C.
«PAC, puliti» dice il pilota del caccia Scorpione caposquadriglia. «Quassù la giornata è sempre magnifica.»
«D’ora in poi, silenzio radio e su banda a raggio compatto, finché non sarà annullato il Livello Sei» ordina Barnes-Avne. «S-meno quattro minuti e i sensori indicano la massima attività antientropica in tutta la Valle. Squadra contatto, rapporto.»
«Sono alla porta» dice la dottoressa Chatkra.
«Pronto» dice l’assistente, un militare molto giovane, di nome Caf. Ha la voce incerta. De Soya si rende conto di non sapere se Caf è un uomo o una donna.
«Qui tutto a posto» riferisce de Soya. Girando solo la testa, guarda attraverso il visore in chiaro. Perfino la base della scalinata è invisibile nei turbini di sabbia. C’è un continuo scoppiettio di scariche elettriche. De Soya passa sull’infrarosso e vede dieci Guardie Svizzere, in piedi, armi "calde", alla lettera.
Perfino in mezzo al frastuono della tempesta, cala all’improvviso una terribile quiete. De Soya può sentire il suo stesso respiro nel casco della tuta da combattimento. I canali di comunicazione, non utilizzati, sibilano e scoppiettano per la statica. Altre scariche sferzano i visori, tattico e a infrarossi; esasperato, de Soya li alza. Il portale della Sfinge è a meno di tre metri, ma la sabbia ora lo nasconde, ora lo lascia vedere, simile a un sipario mosso dal vento. De Soya si avvicina di due passi; la dottoressa Chatkra e l’assistente lo imitano.
«Due minuti» dice Barnes-Avne. «Tutte le armi pronte. Registratori ad alta velocità sull’automatico. Squadre d’evacuazione in preallarme.»
De Soya chiude gli occhi per combattere la vertigine provocata dalle maree temporali. L’universo, pensa, è davvero mirabile. Prova dispiacere perché deve sottoporre a sedativi la bambina solo qualche secondo dopo averla incontrata. Questi sono gli ordini… la bambina dormirà mentre le applicheranno il crucimorfo e durante il volo fatale che la porterà su Pacem… e lui sa che quasi certamente non ne sentirà mai la voce. È dispiaciuto. Avrebbe desiderato parlarle, farle domande sul passato, su lei stessa.
«Un minuto. Controllo fuoco perimetrale su completo automatico.»
«Comandante!» De Soya deve abbassare di nuovo il visore tattico, per scoprire che la voce appartiene a un tenente del genio del perimetro interno. «I campi raggiungono il massimo lungo tutte le tombe! Le porte si aprono nelle Grotte, nel Monolito, nel Palazzo dello Shrike, nella Tomba di Giada…»
«Silenzio su tutti i canali!» ordina, brusca, Barnes-Avne. «Lo stiamo seguendo sui monitor da qui. Trenta secondi.»
De Soya capisce che la bambina entrerà in questa nuova epoca solo per trovarsi davanti tre figure in casco e tuta da combattimento. Alza tutti i visori. Forse non riuscirà mai a parlare alla bambina, ma vuole almeno che lei veda un viso umano, prima che l’addormentino.
«Quindici secondi.» Per la prima volta de Soya nota una traccia di tensione nella voce di Barnes-Avne.
Turbini di sabbia gli artigliano gli occhi scoperti. De Soya alza la mano guantata, si strofina gli occhi, batte le palpebre tra le lacrime. Si avvicina ancora di un passo, imitato dalla dottoressa Chatkra. I battenti della Sfinge cominciano ad aprirsi verso l’interno. L’interno è buio. De Soya rimpiange di non usare gli infrarossi, ma non abbassa il visore. Ha deciso che la bambina vedrà i suoi occhi.
Un’ombra si muove nelle tenebre. La dottoressa fa per avvicinarsi, ma de Soya le tocca il braccio. — Aspetti — dice.
L’ombra diventa una sagoma; la sagoma diventa una figura; la figura è una bambina. Più piccola di quanto de Soya non s’aspetti. I suoi capelli, lunghi fino alle spalle, sono scompigliati dal vento.
— Aenea — dice de Soya. Non intendeva rivolgerle la parola, né chiamarla per nome.
La bambina alza il viso e lo guarda. De Soya vede i suoi occhi scuri, ma non vi legge paura, solo… ansia? tristezza?
— Aenea, non preoccuparti… — comincia de Soya; ma la dottoressa avanza rapidamente, iniettore alzato, e la bambina arretra d’un passo.
Proprio allora il Padre Capitano de Soya scorge nel buio la seconda figura. E proprio allora iniziano le urla.
14
Prima di quel viaggio non sapevo di soffrire di claustrofobia. Il volo ad alta velocità nel buio assoluto di quelle catacombe, il campo di contenimento che bloccava perfino l’aria spostata dal mio passaggio, la sensazione di pietra e di tenebra tutt’intorno… dopo venti minuti, sospesi il programma di guida automatica, feci atterrare il tappeto, annullai il campo di contenimento, mossi qualche passo e urlai.
Afferrai la torcia laser e illuminai le pareti. Un normale corridoio di pietra. Senza il campo di contenimento, fui colpito dal calore. Il tunnel era di sicuro a notevole profondità. Niente stalattiti, né stalagmiti, né pipistrelli, né creature viventi… solo quel tunnel a sezione quadrata che si estendeva all’infinito. Illuminai il tappeto hawking. Pareva morto, del tutto inerte. Forse nella fretta avevo commesso un errore e cancellato il programma. In questo caso, ero morto. Fino a quel momento avevo imboccato una ventina di diramazioni: non avevo la minima possibilità di trovare la via d’uscita.
Urlai di nuovo, ma stavolta si trattava di un urlo più voluto, per rompere in qualche modo la tensione. Lottai per vincere l’impressione che le pareti e le tenebre si chiudessero su di me. Con uno sforzo di volontà soffocai la nausea.
Rimanevano tre ore e mezzo. Tre ore e mezzo di corsa da incubo a tutta velocità nel buio, aggrappato a un tappeto volante… e poi?
Rimpiansi in quel momento di non avere portato un’arma. Era parsa un’idea assurda: nessuna pistola m’avrebbe dato una possibilità contro un solo soldato delle Guardie Svizzere… neppure contro un irregolare della Guardia Nazionale, se per questo… ma ora rimpiangevo di non avere armi. Tolsi dal fodero il piccolo coltello da caccia, guardai l’acciaio mandare riflessi nel raggio della torcia e scoppiai a ridere.
Assurdo!
Misi a posto il coltello, mi lasciai cadere sul tappeto e battei il codice di continuazione programma. Il tappeto s’irrigidì, si sollevò e partì di scatto, con violenza. Andavo chissà dove a tutta velocità.
Il Padre Capitano de Soya scorge la gigantesca sagoma per un attimo, prima che scompaia; e iniziano le urla. La dottoressa Chatkra si muove verso la bambina che arretra, blocca così la visuale a de Soya; si sente uno spostamento d’aria, percettibile anche nel vento che ruggisce tutt’intorno: la testa della dottoressa Chatkra rotola e rimbalza al di là degli stivali di de Soya.
— Madre di Dio — mormora il Padre Capitano nel microfono aperto. Il corpo della dottoressa Chatkra è ancora in piedi. La bambina… Aenea… allora urla e il suono quasi si perde nell’ululato della tempesta di sabbia; come se l’urlo abbia sconvolto un delicato equilibrio, il corpo di Chatkra cade sul gradino di pietra. L’assistente, Caf, grida qualcosa d’incomprensibile e si tuffa verso la bambina. Di nuovo quel rapidissimo movimento, più intuito che visto: il braccio di Caf si stacca dal corpo. Aenea corre verso la scala. De Soya si lancia verso la bambina, ma va a sbattere contro una sorta d’enorme statua metallica fatta di lame taglienti come rasoi. Punte acuminate trapassano l’armatura da combattimento… impossibile, pensa de Soya, ma sente il proprio sangue sgorgare da una decina di piccole ferite.
— No! — urla di nuovo la bambina. — Fermo! Te lo ordino!
La statua metallica alta tre metri si gira lentamente. De Soya ha la confusa impressione di occhi rossi, ardenti, fissi sulla bambina; poi la scultura scompare. Il Padre Capitano muove un passo verso la bambina, vuole ancora rassicurarla, oltre che catturarla, ma si sente mancare la gamba sinistra e cade sul ginocchio destro, urtando l’ampio gradino di pietra.