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Poi padre Glauco venne verso di noi, attraversando un ambiente che era per metà caverna di ghiaccio e per metà stanza d’ufficio. Indossava la lunga tonaca nera e il crocifisso che mi ricordavano i gesuiti del monastero nei pressi di Port Romance. Fu subito chiaro che l’anziano prete non ci vedeva… i suoi occhi erano lattei per la cataratta e ciechi come sassi; ma non fu questa la prima cosa di padre Glauco che mi colpì: il prete era vecchio, vecchissimo, canuto, barbuto come un patriarca, e quando Cuchiat lo chiamò, parve risvegliarsi da una sorta di trance, inarcando le candide sopracciglia e corrugando l’alta fronte. Labbra avvizzite e screpolate si arricciarono in un sorriso. Potrebbe sembrare un atteggiamento bizzarro, ma in padre Glauco non c’era niente di bizzarro… non la sua cecità, non l’abbagliante barba bianca, non la pelle maculata e sciupata dalle intemperie, non le labbra avvizzite. Era… se stesso… a tal punto che ogni paragone è inutile.

Avevo avuto parecchie riserve sull’incontro con quel "glauco"… per timore che avesse qualche rapporto con la Pax da cui fuggivamo… e ora, vedendo che era un prete, avrei dovuto afferrare la bambina e A. Bettik e filarmela con loro e i Chitchatuk. Ma nessuno di noi tre sentì l’impulso di fuggire. Quel vecchio non era la Pax… era solo padre Glauco. Lo scoprimmo qualche minuto dopo il nostro primo incontro.

Ma subito, prima che uno di noi aprisse bocca, il prete cieco parve percepire la nostra presenza. Parlò a Cuchiat e a Chichticia nella loro lingua e poi all’improvviso si girò dalla nostra parte e sollevò la mano come se con il palmo potesse percepire il nostro calore… di Aenea, di A. Bettik, di me stesso. Allora si avvicinò a noi, fermi sul confine fra l’avvolgente caverna di ghiaccio e la stanza avvolta dal ghiaccio.

Padre Glauco venne direttamente da me, mi mise sulla spalla la mano ossuta e disse, forte, in un inglese chiaro della Rete: — Tu sei l’uomo!

Ho impiegato un certo tempo… anni… a porre nella giusta prospettiva quelle parole. A quel tempo pensai soltanto che il vecchio prete aveva perso il senno, oltre la vista.

Decidemmo che ci saremmo fermati per qualche giorno con padre Glauco nel suo grattacielo subglaciale, mentre i Chitchatuk sarebbero andati a fare importanti cose chitchatukesche (Aenea e io ritenemmo che la loro massima priorità fosse ripristinare il numero primo del gruppo) e poi sarebbero tornati a vedere che cosa combinavamo. Aenea e io eravamo riusciti a spiegare a segni che volevamo smontare la zattera e portarla a valle fino all’arcata del teleporter. Ci era sembrato che i Chitchatuk avessero capito: almeno, avevano fatto cenni d’intesa e avevano detto "chia", parola con cui assentivano, quando avevamo mimato l’arcata e la zattera che l’attraversava. Se avevo capito la loro risposta a voce e a gesti, il viaggio fino al portale avrebbe richiesto una camminata di diversi giorni in superficie, in una zona infestata dagli spettri artici. Dissero, ne sono sicuro, che ne avremmo riparlato appena soddisfatta la necessità di "cercare indivisibile equilibrio": ossia, immaginammo, trovare un altro membro per il loro gruppo… o perderne tre. L’ultima prospettiva dava da pensare.

In ogni caso, saremmo rimasti con padre Glauco fino al ritorno del gruppo. Il prete cieco chiacchierò animatamente con i Chitchatuk per alcuni minuti; poi rimase sull’ingresso della caverna di ghiaccio, in ascolto, finché il bagliore del braciere d’osso non fu svanito da tempo.

Allora padre Glauco ci diede di nuovo il benvenuto, passandoci la mano sul viso, sulle spalle, sulle braccia. Confesso di non avere mai sperimentato una simile presentazione. Quando strinse fra le mani il viso di Aenea, il vecchio disse: — Un bambino. Non mi sarei mai aspettato di vedere di nuovo un bambino.

Non capivo. — E i Chitchatuk? — dissi. — Anche loro sono esseri umani. Avranno anche loro dei bambini.

Prima delle "presentazioni", padre Glauco ci aveva guidati nel grattacielo e su per una rampa di scale fino a una stanza più calda, senza dubbio il suo luogo di soggiorno: c’erano lanterne e bracieri in cui ardeva vividamente la stessa carbonella usata dai Chitchatuk, solo che lì lanterne e bracieri erano centinaia e c’erano comodi mobili e un antiquato apparecchio per suonare dischi di musica e scaffali di libri che rivestivano le pareti… cosa che trovai incongrua, nella casa di un cieco.

— I Chitchatuk hanno bambini — rispose il vecchio prete — ma non li fanno stare con le bande che girano così lontano a nord.

— Perché? — domandai.

— Gli spettri artici — spiegò padre Glauco. — A nord della vecchia linea di terraforming sono numerosissimi.

— Pensavo che i Chitchatuk dipendessero per tutto dagli spettri artici.

Il vecchio annuì e si lisciò la barba, piena, candida, tanto lunga da nascondere il solino. Aveva una tonaca rattoppata e rammendata con cura, ma gualcita e lisa. — I miei amici Chitchatuk dipendono totalmente dai cuccioli di spettri artici — precisò. — Il metabolismo degli adulti rende la pelle e le ossa inutili per i loro scopi…

Non capivo l’ultima parte, ma non chiesi spiegazioni.

— Agli spettri artici, d’altro canto, niente piace di più dei bambini Chitchatuk. Ecco perché Cuchiat e gli altri sono così perplessi per la presenza della sua giovane amica.

— Dove stanno i loro bambini? — domandò Aenea.

— Molte centinaia di chilometri più a sud — rispose il prete. — Con i gruppi che allevano i bambini. Laggiù… fa caldo. Il ghiaccio è spesso solo trenta o quaranta metri e l’atmosfera è quasi respirabile.

— Perché gli spettri artici non vanno laggiù a caccia dei bambini? — domandai.

— Per loro è un territorio sgradevole… troppo caldo.

— Allora perché tutti i Chitchatuk non si spostano a sud al sicuro… — M’interruppi: evidentemente l’elevata gravità e il gelo m’avevano reso più stupido del solito.

— Per l’appunto — disse padre Glauco, accorgendosi dalla mia pausa che avevo capito da solo. — I Chitchatuk dipendono totalmente dagli spettri artici. Le bande di cacciatori, come quella del vostro amico Cuchiat, vanno incontro a rischi terribili per rifornire di carne, di pelli e di utensili le bande che allevano i bambini. Queste ultime corrono il rischio di morire di fame, prima di ricevere le forniture di cibo. I Chitchatuk hanno pochi bambini, ma quei pochi sono preziosi. O, come direbbero nella loro lingua, "utchai tuk aichit chacutkuchit".

— Più… sacri, mi pare significhi… del calore — tradusse Aenea.

— Precisamente — confermò il vecchio prete. — Ma dimentico le buone maniere. Ora vi accompagno nelle vostre stanze… ho alcune stanze per gli ospiti, ammobiliate e riscaldate, anche se voi siete i miei primi ospiti non Chitchatuk in… ah… cinque decenni standard, credo. Mentre vi sistemate, scalderò il pranzo.

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Il cardinale Lourdusamy interrompe la spiegazione del vero motivo della missione di de Soya, si appoggia allo schienale del seggio e muove la mano grassoccia per indicare l’alto soffitto. — Cosa gliene pare di questa stanza, Federico? — domanda.

Il Padre Capitano de Soya, pronto ad ascoltare qualcosa d’importanza vitale, rimane sorpreso e alza lo sguardo. La grande sala è riccamente ornata come le altre stanze Borgia; in misura maggiore, si rende conto de Soya, perché i colori sono più vivaci, più vibranti… e poi nota le differenze: gli arazzi e gli affreschi sono più attuali, ritraggono Papa Giulio VI mentre riceve il crucimorfo da un angelo del Signore, mostrano Dio protendere la mano, in un’eco del michelangiolesco soffitto della Cappella Sistina, per conferire a Giulio il Sacramento della risurrezione. Vede il diabolico antipapa, Teilhard I, bandito da un arcangelo che impugna una spada fiammeggiante. Altre immagini nel soffitto e negli arazzi alle pareti proclamano lo splendore del primo grande secolo della risurrezione della Chiesa stessa e dell’espansione della Pax.

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