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Sulla panchina, con lo sguardo triste puntato su de Soya che si allontana, con l’alta fronte e i lineamenti dall’aria afflitta dipinti per un attimo, ma indelebilmente, di luce azzurrastra, siede Sua Santità, Papa Giulio XIV, il Santo Padre per più di seicento miliardi di fedeli cattolici, l’effettivo sovrano per altri quattrocento miliardi di anime sparse nella sconfinata Pax, l’uomo che ha appena spinto de Soya in quella fatidica missione.

10

La mattina dopo la cena eravamo di nuovo nella nave spaziale. Per essere precisi, l’androide A. Bettik e io eravamo nella nave, raggiunta nel modo più comodo, usando il tunnel che collegava le due torri, mentre Martin Sileno era presente come ologramma. Un’immagine olografica bizzarra, perché il vecchio poeta aveva deciso che il trasmettitore, o il computer della nave, lo rappresentasse in una versione più giovane: sempre un antico satiro, ma in grado di reggersi sulle gambe e dotato di chioma e di orecchie appuntite. Indossava un mantelletto marrone, camicia a maniche lunghe, calzoni a sbuffo, berretto floscio. Guardandolo, mi resi conto di quale damerino fosse stato, quando quegli abiti erano di moda. Fui sicuro che Martin Sileno avesse avuto quell’aspetto, quando era tornato su Hyperion come pellegrino, tre secoli prima.

— Vuoi continuare a fissarmi a bocca aperta come un merdoso bifolco, o ti decidi a terminare il cazzo di giro, così possiamo proseguire con gli affari? — disse l’immagine olografica. Il vecchio mostrava i postumi del vino bevuto la sera prima o aveva ritrovato abbastanza salute da sfoggiare un umore più pestifero del solito.

— Faccia strada — dissi.

Dal tunnel avevamo preso l’ascensore della nave per la camera stagna inferiore. A. Bettik e l’ologramma del poeta mi precedettero su per i vari piani: la sala motori con la sua indecifrabile strumentazione e la rete di tubi e di cavi; poi il ponte per il sonno criogenico… quattro cuccette di crio-fuga in cubicoli super raffreddati (ne mancava una, scoprii: quella che Martin Sileno aveva prelevato per uso personale); poi il corridoio del portello stagno centrale, dal quale ero entrato il giorno prima… le pareti di "legno" celavano un gran numero di armadi ripostiglio con roba tipo tute spaziali, veicoli fuoristrada, aerociclette, perfino alcune armi antiquate; poi la zona soggiorno, con lo Steinway e la piazzola olografica; poi di nuovo su per la scala a chiocciola, in quella che A. Bettik chiamò la "sala di navigazione" (e infatti c’era un angolino dove si vedevano alcuni strumenti elettronici per la navigazione), ma che ritenni una biblioteca, con scaffali su scaffali di libri… libri veri, stampati… e poltrone e divanetti lungo le finestre; e infine su in punta alla nave, una semplice stanza circolare con un solo letto al centro.

— Al Console piaceva guardare da qui le perturbazioni atmosferiche, mentre ascoltava musica — disse Martin Sileno. — Nave?

Le paratie della stanza circolare erano trasparenti, come la prua della nave più in alto. Intorno a noi si vedevano solo le pietre scure della torre, ma dall’alto filtrava la luce, grazie al malandato soffitto del silo. Una musica in sordina riempì all’improvviso la stanza. Pianoforte, senza accompagnamento. La melodia era antica e ossessionante.

— Czerchyvik? — domandai, tirando a indovinare.

Il vecchio poeta sbuffò. — Rachmaninoff — disse. I suoi lineamenti da satiro parvero ingentilirsi di colpo nella tenue luce. — Riesci a indovinare chi è al piano?

Ascoltai con attenzione. Il pianista era assai bravo. Non avevo idea di chi fosse.

— Il Console — disse A. Bettik, a voce molto bassa.

Martin Sileno borbottò qualcosa. — Nave… opaco — ordinò. Le pareti parvero solidificarsi. L’ologramma del poeta scomparve dalla posizione accanto alla paratia e si materializzò vicino alla scala a chiocciola. Sileno aveva la mania di quei trasferimenti improvvisi che creavano un effetto sconcertante. — Bene — disse — se abbiamo finito questo cazzo di giro, scendiamo in soggiorno e studiamo come battere in astuzia la Pax.

Le mappe erano del vecchio tipo, inchiostro su carta, ed erano aperte sulla lucida parte superiore del pianoforte a coda. Il continente Aquila allargava le ali sopra la tastiera e la testa di cavallo di Equus si arricciava più in alto, come mappa separata. L’ologramma di Martin Sileno avanzò su gambe robuste e puntò il dito all’incirca nel punto dove si sarebbe trovato l’occhio del cavallo. — Qui — disse. — E qui. — Il dito privo di massa non fece rumore sulla carta. — Il Papa ha portato le sue merdose truppe per tutta la strada da Castel Crono, qui… — il dito si piantò dove la catena montuosa della Briglia toccava il punto più orientale dietro l’occhio — giù fino al muso. Hanno velivoli qui, nella maledetta città di re Billy il Triste… — il dito batté un punto qualche chilometro a nordovest delle Tombe del Tempo — e hanno ammassato le Guardie Svizzere nella valle stessa.

Guardai la mappa. A parte la Città dei Poeti, ormai abbandonata, e la Valle delle Tombe, per più di due secoli il quarto orientale di Equus era rimasto deserto e vietato a tutti, tranne ai soldati della Pax. — Come fa a sapere che le Guardie Svizzere sono là? — domandai.

Il satiro inarcò il sopracciglio. — Ho le mie fonti.

— Le sue fonti precisano unità e armamento?

Dal rumore, parve che l’ologramma del vecchio poeta stesse per sputare sul tappeto. — Non ti occorre conoscere quante unità ci sono — replicò, brusco. — Ti basta sapere che trentamila soldati si trovano fra te e la Sfinge, dalla quale Aenea uscirà domani. Tremila di quei soldati sono Guardie Svizzere. Allora, come intendi passare in mezzo a loro?

Mi venne voglia di ridergli sul muso. Non credevo che l’intera Guardia Nazionale di Hyperion, con appoggio aereo e spaziale, potesse "passare in mezzo" anche solo a sei Guardie Svizzere, altro che tremila! Le armi, l’addestramento e i sistemi difensivi delle Guardie Svizzere erano validi fino a quel punto. Invece di ridere, esaminai di nuovo la mappa.

— Ha detto che le forze aeree sono parcheggiate all’esterno della Città dei Poeti… Sa di quale tipo sono gli aerei?

Il poeta si strinse nelle spalle. — Caccia — disse. — In quella zona i veicoli elettromagnetici non valgono una merda, lo sanno tutti, quindi hanno portato aerei a propulsione-reazione. Jet, penso.

— Autoreattori, statoreattori, pulsoreattori o aspiratori? — domandai. Volevo dare l’impressione di sapere di che cosa parlavo, ma le nozioni militari che avevo raccolto qua e là durante il servizio nella Guardia Nazionale erano basate soprattutto su: smontare l’arma in dotazione, pulire l’arma, usare l’arma, marciare nelle intemperie senza bagnare l’arma, cercare di dormire qualche ora quando non marciavi né pulivi né smontavi l’arma, cercare di non morire congelato quando non dormivi e (a volte) tenere bassa la testa per non farti centrare dai cecchini su Ursa.

— Che cazzo te ne frega del tipo d’aereo? — brontolò Martin Sileno. Si era tolto di dosso tre secoli, ma non si era certo addolcito. — Sono aerei da caccia. Li abbiamo misurati a… Nave? Che cazzo di velocità avevano, gli ultimi puntini radar?

«Tre mach» rispose la nave.

— Tre mach — ripeté il poeta. — Abbastanza veloci da volare quaggiù, bombardare fino a ridurre tutto in cenere e tornare nel continente nord prima che la birra dei piloti diventi tiepida.

Alzai gli occhi dalla mappa. — Avevo intenzione di domandarlo — dissi. — Perché non lo fanno?

Il poeta girò la testa verso di me. — Perché non fanno cosa?

— Volare quaggiù, ridurre lei in cenere e tornare a casa prima che la loro birra diventi tiepida. Lei rappresenta una minaccia per loro. Perché la tollerano?

Martin Sileno emise un borbottio. — Io sono morto. Loro pensano che sia morto. Come potrebbe, un morto, costituire una minaccia?

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