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— Possiamo avvicinarci ancora? — domandò Aenea.

Avevo mantenuto il tappeto hawking a circa cinquanta metri dalla rupe, mentre la costeggiavo. — Sarebbe meglio evitarlo — risposi. — Siamo già a tiro d’arma da fuoco. Non vorrei indurre in tentazione anche qualcuno armato solo di lancia o di arco e frecce.

— Con l’arco ci colpirebbero anche a questa distanza — commentò Aenea. Ma non insistette.

Per un istante credetti di scorgere un luccichio che si muoveva dentro una delle aperture ovali scavate nella roccia rossa, ma mi convinsi che era stato uno scherzo della luce del tramonto.

— Sei soddisfatta? — domandai a Aenea.

— A dire il vero, no — rispose lei. Si teneva aggrappata alle mie spalle, mentre il tappeto virava. La brezza mi arruffava i capelli e, quando girai la testa, vidi che quelli di Aenea, più lunghi dei miei, svolazzavano come una scia.

— Però dobbiamo tornare al lavoro — dissi, puntando in direzione del fiume e facendo accelerare il tappeto. Il baldacchino di gimnosperme pareva morbido, soffice e ingannevolmente continuo, quaranta metri più in basso: dava l’impressione che potevamo atterrarvi sopra, se necessario. Sentii una fitta di tensione al pensiero delle conseguenze, se si fosse presentata davvero la necessità di un atterraggio. "Però A. Bettik ha la cintura di volo e le aerociclette" mi dissi. "Può venire a prelevarci, se occorre."

Incrociammo il fiume, circa un chilometro a sudest del punto da dove eravamo partiti; avevamo una visuale di una trentina di chilometri verso l’orizzonte. Non si scorgevano portali.

— Da quale parte? — domandai.

— Andiamo avanti ancora un poco.

Virai a sinistra, tenendomi lungo il fiume, ma non sopra. Non avevamo visto segno di vita animale, a parte di tanto in tanto uno di quegli uccelli bianchi e quelle creature rosse, le piante-pipistrello. Pensavo ai gradini sulle pareti del monolito rosso, quando Aenea mi tirò per la manica e indicò qualcosa proprio sotto di noi.

Qualcosa di molto grande si muoveva appena sotto la superficie del fiume. Il riflesso dei raggi del sole sull’acqua ci nascondeva la maggior parte dei particolari, ma riuscii a scorgere la pelle coriacea, una sorta di coda uncinata e pinne o ciglia sui fianchi. La creatura era lunga da otto a dieci metri. S’immerse e noi la sorpassammo prima che potessi scorgere altri particolari.

— Pareva una manta fluviale — mi gridò Aenea da sopra la spalla. Volavamo di nuovo a gran velocità e il sibilo del vento contro il campo deflettore era rumoroso.

— Molto più grossa — dissi. Avevo bardato e guidato mante fluviali, ma non ne avevo mai visto una lunga e larga come quella. All’improvviso il tappeto hawking mi parve fragilissimo e inconsistente. Mi abbassai a trenta metri (sfioravamo gli alberi) in modo che una caduta non fosse necessariamente fatale, se l’antico tappeto avesse deciso di abbandonarci senza preavviso.

Virammo a sud lungo un’altra ansa, notammo che il fiume si restringeva rapidamente e poco dopo fummo accolti da un rombo e da una parete di spruzzaglia.

La cascata non era molto spettacolare (non superava i quindici metri d’altezza) ma la massa d’acqua era enorme, perché il fiume, ampio un chilometro, si ritrovava compresso fra dirupi rocciosi e si restringeva fino a un centinaio di metri, con un impressionante dispendio d’energia. Alla base della cascata c’era una serie di rapide sulle rocce trascinate a valle dalla corrente e poi un ampio bacino, dopo il quale il fiume tornava ad allargarsi ed era di nuovo relativamente placido. Per un attimo mi domandai come uno sciocco se la creatura fluviale scorta poco prima s’aspettasse quel salto improvviso.

— Non credo che troveremo il portale in tempo per tornare prima di notte — dissi alla bambina. — Ammesso che ce ne sia uno a valle.

— Per esserci, c’è — disse Aenea.

— Abbiamo percorso un centinaio di chilometri.

— A. Bettik ha detto che quella era la media delle sezioni del Teti — mi rimbeccò Aenea. — Su questo fiume potrebbero esserci due o trecento chilometri tra un portale e l’altro. Inoltre, lungo i vari fiumi c’erano numerosi portali. La lunghezza variava anche per sezioni di fiume sullo stesso pianeta.

— Chi te l’ha detto? — Mi girai a guardarla in viso.

— Mia madre. Era un’investigatrice privata, lo sai. Una volta, in un caso di divorzio, seguì il marito e l’amichetta per tre settimane lungo il Teti.

— Cos’è un caso di divorzio?

— Come non detto. — Si guardò intorno fino a trovarsi girata, con i capelli che le frustavano il viso. — Hai ragione, torniamo alla nave. Verremo da questa parte domani.

Eseguii l’inversione e accelerai verso ovest. Sorvolammo di nuovo la cascata e ridemmo per la spruzzaglia che ci bagnava il viso e le mani.

«Signor Endymion?» disse il comlog. Non era la voce della nave, ma quella di A. Bettik.

— Sì — risposi. — Stiamo tornando. Saremo lì fra venticinque o trenta minuti.

«Lo so» disse con calma l’androide. «Ero nella piazzola olografica e ho guardato la torre, la cascata e tutto il resto.»

Aenea e io ci scambiammo un’occhiata, con quella che era di sicuro un’espressione comica. — Vuoi dire che il comlog invia immagini?

«Naturalmente» intervenne la nave. «Ologrammi o video. Vi abbiamo seguito mediante ologrammi.»

«Però lo spettacolo è un po’ insolito» disse A. Bettik «perché al momento la piazzola è una rientranza nella parete. Ma non chiamavo per controllare i suoi movimenti.»

— Perché, allora?

«A quanto pare abbiamo un ospite» disse A. Bettik.

— Una grossa creatura fluviale? — domandò Aenea. — Una sorta di manta, ma più grossa?

«Non esattamente» rispose con calma A. Bettik. «L’ospite è lo Shrike.»

30

Il tappeto hawking appariva di sicuro come un lampo confuso, per la folle velocità con cui ci precipitammo alla nave. Domandai all’androide se la nave poteva inviarci in tempo reale un ologramma dello Shrike e lui rispose che quasi tutti i sensori dello scafo erano coperti di fango e quindi la nave non aveva una visuale chiara della spiaggia.

— Quel mostro è sulla spiaggia?

«C’era un attimo fa, quando ho portato fuori un altro carico» disse A. Bettik.

«E poi è stato nell’anello accumulatore del motore Hawking» intervenne la nave.

— Cosa? Non c’è ingresso, in quella parte della nave… — Mi bloccai, prima di fare del tutto la figura dell’idiota. — Ora dov’è? — soggiunsi.

«Non lo sappiamo con certezza» rispose A. Bettik. «Adesso esco sullo scafo e porto con me una radio. La nave farà da ponte.»

— Aspetta… — cominciai.

«Signor Endymion» m’interruppe l’androide «non ho chiamato per spingerla a precipitarsi qui, ma per suggerire a lei e alla signorina Aenea di… ah… di prolungare un poco l’esplorazione, finché la nave e io non avremo un’idea delle intenzioni del… ah… del nostro ospite.»

Capivo benissimo. Avevo l’incarico di proteggere la bambina, ma appena compariva quella che forse era la più micidiale macchina per uccidere dell’intera galassia, che cosa facevo, se non precipitarmi a capofitto incontro al pericolo? Per tutto il giorno mi ero comportato proprio da stupido. Allungai la mano sui fili di volo per rallentare il tappeto e virare a est.

Aenea mi bloccò. — No — disse. — Torniamo alla nave.

Scuotevo già la testa. — Quella creatura è…

— Quella creatura può andare dove vuole — m’interruppe la bambina. Era molto seria. — Se volesse me, o te, comparirebbe qui con noi sul tappeto.

Il pensiero mi spinse a guardarmi intorno.

— Torniamo alla nave — disse Aenea.

Con un sospiro modificai la rotta, ma rallentai un poco. Tolsi dallo zaino la carabina al plasma e raddrizzai il calcio pieghevole. — Non capisco — dissi. — Ci sono testimonianze che quel mostro abbia mai lasciato Hyperion?

— Non credo — rispose Aenea. Si era appoggiata alla mia schiena in modo da riparare dal vento il viso, perché il campo deflettore si era attenuato.

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