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— Allora cosa combina? Segue te?

— Sembra un’ipotesi logica. — La voce era soffocata, perché Aenea parlava contro la mia camicia.

— Perché?

Aenea si scostò con tanta forza che d’istinto allungai la mano per impedirle di ruzzolare giù dal tappeto. Lei si ritrasse. — Raul, in realtà ancora non conosco le risposte a queste domande, va bene? Non sapevo se la creatura avrebbe lasciato Hyperion. Di sicuro non volevo che lasciasse il pianeta. Credimi.

— Ti credo — dissi. Abbassai sul tappeto la mano e notai quanto fosse grande, vicino alla sua manina, al suo ginocchio, al suo piede. Aenea mise la mano sulla mia. — Torniamo.

— D’accordo. — Innestai nella carabina un caricatore. Le cartucce al plasma non erano singole, ma restavano stampate nel caricatore fino al momento dello sparo. Un caricatore conteneva cinquanta dardi al plasma. Sparato l’ultimo, il caricatore non esisteva più. Lo inserii con una manata, come avevo imparato a fare nella Guardia, spostai su colpo singolo il selettore e mi accertai che la sicura fosse inserita. Tenni l’arma di traverso sulle ginocchia.

Aenea mi si aggrappò alle spalle e mi parlò nell’orecchio. — Credi che quell’affare serva a qualcosa contro lo Shrike?

Girai la testa e la guardai negli occhi. — No — risposi.

Volammo nel tramonto.

Al nostro arrivo, A. Bettik era da solo sulla stretta spiaggia. Agitò il braccio per rassicurarci e segnalarci che tutto era a posto, ma prima d’atterrare feci ancora un giro sopra gli alberi. Il sole era un globo rosso in equilibrio a ovest sul baldacchino della giungla.

Atterrai sulla sabbia, accanto alla pila di casse e d’attrezzature, all’ombra dello scafo, e balzai in piedi, impugnando la carabina con la sicura già disinserita.

— Non è più tornato — disse A. Bettik. Uscendo dalla nave, ci aveva informati per radio della scomparsa dello Shrike, ma io ero ancora teso. L’androide ci guidò a una zona sgombra dove la sabbia mostrava due impronte di piedi… difficile chiamarle orme: pareva che qualcuno avesse premuto sulla sabbia, in due punti, un grosso e pesante erpice a lame.

Mi accovacciai accanto alle impronte, da consumato battitore qual ero, ma capii subito quanto fosse stupido il mio comportamento. — Si è limitato a comparire prima qui, poi nella nave, e a scomparire? — domandai.

— Sì — confermò A. Bettik.

— Nave, hai avuto quella creatura sul radar o sui monitor?

«Negativo.» La risposta provenne dal comlog. «Non ho telecamere nell’accumulatore del motore Hawking…»

— Come sai che era lì?

«Ho un sensore di massa in ogni compartimento. Per volare, devo sapere con esattezza quanta massa si sposta in ogni sezione della nave.»

— E quanta massa si è spostata?

«Uno-virgola-zero-sei-tre tonnellate metriche» disse la nave.

Mi bloccai nell’atto di raddrizzarmi. — Cosa? Più di mille chili? È assurdo. — Guardai di nuovo le due impronte. — Impossibile.

«No, possibile. Durante la permanenza della creatura nell’anello accumulatore del motore Hawking, ho misurato un preciso spostamento di uno-virgola-zero-sei-tre tonnellate e…»

— Dio santo — dissi, rivolgendomi ad A. Bettik. — Chissà se qualcuno ha mai pesato quel bastardo prima d’ora.

— Lo Shrike è alto quasi tre metri — disse l’androide. — Potrebbe avere una densità notevole. Potrebbe anche variare la propria massa a seconda delle esigenze.

— Esigenze per cosa? — brontolai, guardando la linea d’alberi. Là sotto il buio era fitto, mentre il sole tramontava. In alto, le fronde delle gimnosperme catturarono l’ultima luce e si confusero. Le nuvole, comparse negli ultimi minuti del nostro viaggio, si arrossarono e poi divennero grigio smorto, mentre il tramonto svaniva.

— Sei pronta a fare il punto mediante le stelle? — dissi alla nave.

«Pronta. Ma sarà necessario che la cappa di nuvole si dissolva. Nel frattempo ho già fatto un paio d’altri calcoli.»

— Ossia? — domandò Aenea.

«Ossia ho calcolato, basandomi sul movimento del sole nelle ultime ore, che qui il giorno è lungo diciotto ore, sei minuti e cinquantuno secondi. Unità standard della vecchia Egemonia, ovviamente.»

— Ovviamente — ripetei. Mi rivolsi ad A. Bettik. — Nel tuo libro si parla di un mondo turistico del Teti, il cui giorno duri diciotto ore?

— Non mi è accaduto di trovarne nessuno, signor Endymion.

— E va bene. Parliamo allora di stanotte. Ci accampiamo qui, restiamo nella nave o carichiamo tutta la roba sulle aerociclette e in tutta fretta scendiamo a valle fino al prossimo portale? Potremmo portare con noi il canotto gonfiabile. Io voto a favore. Non ho nessuna voglia di restare su questo pianeta, se c’è in giro lo Shrike.

A. Bettik alzò un dito, come un bambino in aula. — Avrei dovuto comunicarglielo per radio prima… — disse, imbarazzato. — Il deposito delle attrezzature extra veicolari, come sa, è stato danneggiato durante l’attacco. Non c’è traccia di un canotto gonfiabile, anche se la nave ricorda che era compreso nell’inventario; inoltre, tre aerociclette sono danneggiate.

Corrugai la fronte. — Irrecuperabili?

— Sì, signore. Irrecuperabili. Secondo la nave, è possibile riparare la quarta, ma occorreranno alcuni giorni.

— Merda — dissi, a nessuno in particolare.

— Quanta carica hanno le aerociclette? — domandò Aenea.

«Cento ore, uso normale» cinguettò il comlog.

Aenea gesticolò con noncuranza. — Tanto, non credo che sarebbero molto utili. Una sola aerocicletta non farà la differenza. E ci sarebbe sempre il problema di trovare una fonte di ricarica.

Mi strofinai la guancia: avevo la barba lunga. Nell’eccitazione della giornata avevo dimenticato di radermi. — Ci avevo pensato — dissi. — Ma se prendiamo qualche bagaglio, il tappeto hawking non riuscirà a portare noi tre, più le armi, più i materiali che ci servono.

Pensavo che Aenea avrebbe trovato da ridire sulla necessità di materiali. Lei invece disse: — Prendiamo pure tutto, ma non andiamo in volo.

— Non andiamo in volo? — ripetei, sorpreso. Mi sentii male, all’idea di aprirci la strada nella giungla. — Senza il canotto, o usiamo il tappeto o andiamo a piedi…

— Possiamo sempre andare per fiume — replicò Aenea. — Potremmo costruire una zattera e farci portare dalla corrente… non solo in questo tratto di fiume, ma in tutti i fiumi.

Mi strofinai di nuovo la guancia. — La cascata…

— Possiamo servirci del tappeto per trasportare laggiù tutta la nostra roba domattina e costruire la zattera a valle della cascata. A meno che tu non pensi che non riusciremo a costruirla…

Guardai le gimnosperme: tronchi alti, sottili, robusti, proprio dello spessore adatto. — Possiamo costruirla — ammisi. — Sul Kans rabberciavamo spesso delle zattere per trasportare a valle la roba che non stava nelle chiatte.

— Bene — disse Aenea. — Stanotte ci accampiamo qui… non dovrebbe essere una notte molto lunga, se il giorno dura solo diciotto ore standard. Partiremo alle prime luci.

Esitai un momento. Non volevo abituarmi a lasciare che una bambina di dodici anni prendesse le decisioni per tutti, ma l’idea pareva assennata.

— Peccato che la nave sia kaput — dissi. — Avremmo potuto scendere il fiume usando i soli repulsori…

Aenea si mise a ridere. — Non ho mai pensato di percorrere il Teti su questa nave — rivelò, strofinandosi il naso. — Sarebbe proprio ciò di cui abbiamo bisogno: poco appariscente come un enorme dachsund che s’infili nelle porte da cricket.

— Cos’è un dachsund? — domandai.

— Cos’è una porta da cricket? — domandò A. Bettik.

— Niente, niente — disse Aenea. — Siete d’accordo per restare qui stanotte e costruire una zattera domani? Guardai l’androide.

— Mi pare una proposta eminentemente sensata — disse A. Bettik — per quanto sia un sottoinsieme di un viaggio altrettanto eminentemente insensato.

— Lo considero un voto a favore — disse Aenea. — Raul?

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