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— No, Eccellenza — risponde de Soya.

Il cardinale annuisce. — Una grave perdita. — Sospira e posa sulla scrivania sgombra la mano grassoccia. De Soya nota le fossette sul dorso; guarda la mano come se fosse un’entità autonoma, una creatura marina priva di scheletro.

— Federico — tuona il cardinale Lourdusamy — possiamo suggerirle qualcuno che riempia il vuoto lasciato sulla sua nave dalla morte del lanciere Rettig. Ma prima dobbiamo parlare dei motivi di questa missione. Sa perché dobbiamo trovare e tenere sotto custodia quella ragazzina?

De Soya raddrizza la schiena. — Sua Eccellenza spiegò che la bambina è figlia di un abominio cìbrido. Che costituisce una minaccia per la Chiesa stessa. Che potrebbe essere un agente delle IA del TecnoNucleo.

Il cardinale annuisce. — Tutto vero, Federico, tutto vero. Ma non le abbiamo spiegato in che modo quella bambina è una minaccia, non solo per la Chiesa e per la Pax, ma per tutta la razza umana. Se torna in missione, figliolo, ha diritto di sapere.

Dall’esterno, soffocati ma ancora percettibili attraverso le finestre e le pareti del palazzo, provengono due improvvisi e diversi rumori. Nello stesso istante, dal colle Gianicolo lungo il fiume verso Trastevere, il cannone di mezzogiorno spara a salve e gli orologi di S. Pietro cominciano a battere i dodici rintocchi.

Il cardinale Lourdusamy esita, toglie dalle pieghe della veste cremisi un antico orologio da tasca, annuisce come soddisfatto, lo carica e lo ripone.

De Soya aspetta.

42

Impiegammo poco più d’un giorno a percorrere i tunnel di ghiaccio fino alla città sepolta, dove avremmo trovato padre Glauco, ma in quel tempo ci furono tre brevi periodi di sonno e il viaggio stesso (buio, freddo, stretti cunicoli nel ghiaccio) non avrebbe avuto niente di particolare, se uno spettro artico non avesse preso una persona del nostro gruppo.

Come tutti i veri atti di violenza, avvenne troppo rapidamente per essere osservato. L’attimo prima avanzavamo (Aenea, l’androide e io ci trovavamo quasi in coda alla fila di Chitchatuk) e l’attimo dopo ci fu un’esplosione di ghiaccio e di movimento (mi bloccai, pensando che qualcuno avesse fatto esplodere una mina) e la figura impellicciata, due posti davanti a Aenea, scomparve senza un grido.

Ero ancora impietrito, reggendo nelle mani guantate la carabina al plasma, inutile perché ancora con la sicura, quando il Chitchatuk più vicino cominciò a ululare di rabbia e di disperazione, mentre quelli nei pressi si lanciavano nel nuovo cunicolo che si spalancava dove un attimo prima non c’era alcun tunnel.

Aenea già illuminava con la torcia il condotto quasi verticale, quando mi spinsi accanto a lei, tenendo alzata l’arma. Due Chitchatuk si erano lanciati in quel pozzo, servendosi, per frenare la caduta, degli stivali e di corti coltelli d’osso che sollevarono schegge di ghiaccio. Stavo per infilarmi nel tunnel, quando Cuchiat mi afferrò per la spalla. — Ktchey! — disse. — Ku tcheta chi!

Ormai, dopo quattro giorni con i Chitchatuk, ne sapevo abbastanza per capire che mi ordinava di non entrare nel tunnel. Ubbidii, ma estrassi la torcia laser per illuminare la via ai cacciatori urlanti che già si trovavano venti metri più in basso e sparivano alla vista nel punto in cui il condotto faceva una curva e continuava in piano. Sulle prime pensai che fosse il riflesso rossastro del raggio laser, ma poi vidi che il pozzo era rivestito, quasi totalmente, di sangue rosso vivo.

I lamenti fra i Chitchatuk durarono anche dopo il ritorno a mani vuote dei cacciatori. Capii che non c’era traccia dello spettro artico né della sua vittima, a parte il sangue, la pelliccia e il mignolo della destra della sventurata. Cuchtu, quello che ritenevamo lo stregone, si mise in ginocchio, baciò il dito mozzato, usò sul proprio braccio il coltello d’osso fino a far gocciolare sul dito insanguinato il proprio sangue e poi con cura, quasi con reverenza, ripose nella sua sacca di pelle il misero resto. I lamenti si fermarono di colpo. Chiaku, il Chitchatuk alto con la pelliccia macchiata di sangue (ora doppiamente macchiata, perché lui era uno dei cacciatori che si erano lanciati nel condotto verticale) si rivolse a noi e parlò in tono pressante per qualche momento, mentre gli altri si mettevano in spalla le sacche, riponevano le lance e riprendevano il cammino.

Continuammo a risalire il tunnel di ghiaccio ma non potei fare a meno di girarmi a guardare il frastagliato foro provocato dallo spettro artico svanire nel buio che pareva seguirci. Sapendo che quegli animali vivevano in superficie e scendevano nei cunicoli soprattutto per cacciare, non mi ero mai innervosito; ma ora lo stesso fondo di ghiaccio mi pareva infido, le sfaccettature e le creste delle pareti e del soffitto mi parevano nascondigli del prossimo spettro artico. Mi ritrovai a camminare in punta di piedi, come se in questo modo avrei evitato di sprofondare nella trappola di un altro predone. Non era facile, camminare in punta di piedi su Sol Draconis Septem.

— Signorina Aenea — disse l’intabarrato A. Bettik — non ho capito che cosa diceva il signor Chiaku. Qualcosa a proposito di numeri?

Il viso di Aenea in pratica scompariva sotto la griglia di zanne della pelliccia. Sapevo che le pelli provenivano tutte da cuccioli di spettro artico, ma mi era bastato scorgere per un attimo le bianche braccia grosse come il mio tronco che si protendevano dalla parete di ghiaccio e i neri artigli lunghi come il mio avambraccio, per capire quant’erano enormi quei cuccioli. A volte, mi resi conto (intanto avevo tolto la sicura alla carabina e stavo cercando di procedere a passi felpati malgrado l’opprimente gravità di Sol Draconis Septem) la via più breve per il coraggio è l’assoluta ignoranza.

— … perciò penso che si riferisse al fatto che la banda non è più formata da un numero primo di persone — diceva in quel momento Aenea all’androide. — Prima che quella sventurata… fosse presa… eravamo ventitré di loro più tre di noi, cosa che andava bene. Ma ora devono trovare presto un rimedio, altrimenti… non so… altra malasorte.

Per quanto ne capii, risolsero il problema del numero portasfortuna mandando avanti Chiaku come esploratore. O forse il Chitchatuk si offrì semplicemente di stare lontano dal gruppo finché gli altri non ci avessero lasciato nella città sepolta… venticinque, in quanto numero dispari, poteva essere sopportato per breve tempo, ma senza di noi la banda sarebbe stata composta di ventidue persone, un numero del tutto inaccettabile.

Quando giungemmo alla città, lasciai perdere tutti i pensieri sulle preoccupazioni dei Chitchatuk per i numeri primi.

Per prima cosa vedemmo la luce. Nel giro di pochi giorni i nostri occhi si erano abituati al fioco bagliore delle braci del "chuchkituk", ossia del braciere d’osso, al punto che perfino l’occasionale balenio delle nostre torce pareva accecante. La luce della città sepolta nel ghiaccio fu realmente dolorosa.

Un tempo l’edificio era d’acciaio o plastacciaio e vetro intelligente, alto forse settanta piani, e probabilmente guardava su una piacevole e verdeggiante valle terraformata… forse era rivolto a sud, verso il fiume distante mezzo chilometro. Ora il nostro tunnel di ghiaccio si apriva in una breccia nel vetro, dalle parti del 59° piano; le lingue del ghiacciaio avevano piegato l’armatura metallica dell’edificio e avevano trovato vie d’accesso in vari piani.

Ma il grattacielo non era crollato e forse sporgeva i piani superiori nel vuoto nero e quasi assoluto sopra il ghiacciaio. E risplendeva ancora di luce.

I Chitchatuk si fermarono all’ingresso, riparandosi gli occhi dal bagliore e ulularono in un tono diverso dal precedente lamento per la cattura della donna. Era un richiamo. Mentre stavamo lì ad aspettare, fissai l’aperto scheletro d’acciaio e di vetro dell’edificio, le decine e decine di lampade appese da tutte le parti, piano su piano, tanto che attraverso il limpido ghiaccio vedevamo sotto i nostri piedi l’edificio dalle finestre vividamente illuminate sprofondare come in un abisso.

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