— Giusto — dice il caporale Kee — ma…
— Il mio piano prevedeva che tu e Gregorius usaste lo scudo termodispersore per il rientro nell’atmosfera — continua de Soya. — Sposterò la Raffaele nell’orbita più bassa possibile. Usa uno zaino di reazione ausiliario per la retropropulsione. Le tute dovrebbero resistere al rientro, no?
— È possibile — dice Kee — ma…
— Allora vai giù su repulsori EM e trova quella… donna — dice de Soya. — La trovi e la blocchi. Dopo, puoi usare la navetta per tornare.
Il caporale Kee si sfrega gli occhi. — Sì, signore. Ma ho controllato le tute. Tutte rivelano carenza d’integrità…
— Carenza… — ripete stupidamente de Soya.
— Qualcuno ha squarciato gli strati termodispersori — dice Kee. — I danni non sono visibili a occhio, ma ho svolto un diagnostico d’integrità di classe Tre. Saremmo morti prima del blackout di ionizzazione.
— Tutte le tute? — domanda debolmente de Soya.
— Tutte, signore.
Il prete-capitano domina l’impulso di imprecare di nuovo. — Comunque, ora porto più in basso la nave, caporale.
— Perché, signore? Qualsiasi cosa accada laggiù, avverrà sempre a parecchie centinaia di chilometri da noi. Non possiamo farci un bel niente.
De Soya annuisce, ma batte ugualmente i parametri per il nucleo di guida. Con la mente intontita, commette diversi errori, almeno uno dei quali li farebbe bruciare nell’atmosfera di Boschetto Divino, ma la nave li rileva. De Soya riformula i parametri.
«Sconsiglio un’orbita così bassa» dice la voce asessuata della nave. «Boschetto Divino ha un’atmosfera superiore volatile e trecento chilometri non soddisfano i margini di sicurezza richiesti dal…»
— Chiudi il becco e ubbidisci — sbotta il Padre Capitano de Soya.
Chiude gli occhi, mentre i propulsori principali si accendono. Il ritorno del peso rende più acuta la sofferenza nella carne e nel corpo. De Soya sente Kee gemere nella poltroncina del secondo pilota.
«L’attivazione del campo di contenimento interno allevierà il disagio dell’accelerazione a 4 g» dice la nave.
— No — dice de Soya. Vuole risparmiare energia.
Il rumore, le vibrazioni e il dolore continuano. Il lembo di Boschetto Divino cresce nello schermo fino a riempire la visuale.
"E se quella… traditrice… avesse programmato la nave per spingerci nell’atmosfera, nel caso che ci fossimo svegliati e avessimo cercato di manovrarla?" pensa all’improvviso de Soya. Ridacchia, malgrado la tortura della trazione gravitazionale. "Se l’avesse fatto, neppure lei tornerebbe a casa!"
La tortura continua.
54
Quando sbucammo dall’altra parte del portale, lo Shrike era sparito.
Dopo un momento abbassai la carabina e mi guardai intorno. Lì il fiume era ampio e poco profondo. Il cielo era di un azzurro più scuro di quello di Hyperion e lontano, verso nord, si vedevano torreggianti stratocumuli. Pareva che le colonne di nubi riflettessero la luce della sera e uno sguardo alle nostre spalle ci mostrò un grosso sole basso all’orizzonte. Avevo l’impressione che il sole stesse per tramontare, non che fosse appena sorto.
Le rive mostravano rocce, erbacce e un terreno coperto dì cenere. L’aria stessa odorava di cenere, come se nella zona da noi attraversata ci fosse stata una foresta distrutta dalle fiamme. La bassa vegetazione confermava questa ipotesi. Alla nostra destra, lontano molti chilometri, a occhio, si alzava un annerito scudo vulcanico.
— Boschetto Divino, ritengo — disse A. Bettik. — Quelli sono i resti dell’Albero Mondo.
Guardai di nuovo il nero cono vulcanico. Nessun albero avrebbe potuto raggiungere quelle dimensioni.
— Dov’è lo Shrike? — dissi.
Aenea si alzò e andò nel punto dove un attimo prima c’era stata quella creatura. Passò la mano nell’aria, come se lo Shrike fosse diventato invisibile.
— Reggetevi! — dissi. La zattera stava per raggiungere una modesta serie di rapide. Tornai al timone e lo slegai, mentre la bambina e l’androide impugnavano le pertiche. La zattera sobbalzò, sollevò spruzzi, cercò di fare testa-coda, ma ben presto superò le bianche increspature.
— Era divertente! — disse Aenea. Da un po’ di tempo non la vedevo così animata.
— Già — dissi. — Divertente. Ma la zattera va a pezzi. — Era un’esagerazione, ma non proprio un’iperbole. I tronchi allentati, a prua, cominciavano a staccarsi. I nostri bagagli si muovevano, liberi, sulla tenda smontata.
— C’è una zona piana dove accostare — disse A. Bettik, indicando un tratto erboso lungo la sponda di destra. — Più avanti le alture sembrano più scoscese.
Presi il binocolo e scrutai quelle creste nerastre. — Hai ragione — dissi. — Forse più avanti ci sono delle vere rapide e pochi punti adatti all’approdo. Fermiamoci qui a legare i tronchi allentati.
L’androide e la bambina spinsero la zattera verso la riva destra. Saltai giù e tirai l’imbarcazione sulla spiaggia fangosa. I danni, sulla parte frontale e sul fianco, non erano gravi: solo legacci allentati e qualche tavola scheggiata. Diedi uno sguardo a monte. Il sole era più basso, ma avevo l’impressione che non sarebbe tramontato prima di un’ora almeno.
— Ci accampiamo per la notte? — domandai, pensando che quello era un posto adatto e che forse non ne avremmo trovato un altro tanto presto. — O proseguiamo?
— Proseguiamo — dichiarò Aenea, decisa.
Capivo il suo impulso. Era ancora mattino, secondo l’ora di Qom-Riyadh. Però obiettai: — Non mi va di trovarmi in acque mosse nel buio.
Aenea scrutò il sole. — E a me non va di stare qui ferma nel buio — replicò. — Andiamo avanti per quanto possibile. — Mi chiese il binocolo, scrutò le terrazze nerastre alla nostra destra, le buie alture sulla sinistra. — Non avrebbero messo una sezione del Teti in un fiume con rapide molto pericolose, no?
A. Bettik si schiarì la voce. — Propenderei per il fatto che quella colata di lava sia stata creata dall’attacco degli Ouster contro questo pianeta. I sommovimenti sismici provocati da un simile impiego di raggi al plasma potrebbero avere generato rapide molto impegnative.
— Non sono stati gli Ouster — disse piano Aenea.
— Cosa, ragazzina?
— Non sono stati gli Ouster — ripeté Aenea, in tono più deciso. — Il TecnoNucleo costruì alcune navi per aggredire la Rete… simulando un’invasione Ouster.
— Certo — dissi. Avevo dimenticato che Martin Sileno diceva la stessa cosa, verso la fine dei Canti. Quando avevo imparato il poema, quella parte mi era parsa poco sensata. Ora non aveva importanza. — Ma le alture scorificate sono ancora lì e potrebbe esserci anche qualche pericoloso tratto d’acqua rotta. O di vere e proprie cascate. Forse sarà impossibile attraversarle con la zattera.
Aenea annuì e ripose nel mio zaino il binocolo. — Se sarà impossibile, sarà impossibile — replicò. — Andremo a piedi e attraverseremo a nuoto il prossimo portale. Ma ripariamo velocemente la zattera e avanziamo il più possibile. Se vediamo rapide difficili, accostiamo alla riva più vicina.
— Potrebbe essere una scogliera, anziché una riva — obiettai. — Quella lava non promette niente di buono.
Aenea scrollò le spalle. — Allora ci arrampicheremo e continueremo a piedi.
Ammetto d’avere provato ammirazione per la bambina, quella sera. Sapevo che era sfinita, nauseata, sconvolta da qualche emozione che non capivo, e spaventata quasi a morte. Ma non l’avevo mai vista pronta a rinunciare.
— Bene — dissi — almeno lo Shrike è sparito. Buon segno.
Aenea si limitò a guardarmi. Ma cercò di sorridermi.
Le riparazioni richiesero solo venti minuti. Rifacemmo i legacci, spostammo sul davanti alcuni supporti centrali e stendemmo sul tavolato la microtenda per non bagnarci i piedi.
— Se dobbiamo viaggiare nel buio — disse Aenea — sarebbe bene rizzare di nuovo l’albero maestro con la lanterna.