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Nemes ritrae la sonda, torna di corsa in superficie, riporta sulla Raffaele la navetta, cancella le tracce nella memoria del computer, vi inserisce un falso messaggio e s’infila nella culla di risurrezione per dormire. Nel sistema di Pacem ha già staccato dal sistema di risurrezione la culla e ha modificato le spie luminose per simulare il suo funzionamento; ora si distende nella bara ronzante e chiude gli occhi. I salti al modo temporapido e l’uso della pelle cambiafase, se prolungati, la stancano. Nemes accoglie con piacere la possibilità di riposare, prima che de Soya e gli altri si destino dalla morte.

Con un sorriso ricorda un ultimo particolare; mette in funzione un guanto a variazione di fase, si tocca il torace fra i seni, rende rossa e modifica la carne a somiglianza del crucimorfo. Lei, naturalmente, non porta quel parassita; ma c’è sempre la possibilità che gli altri la vedano nuda e lei non ha intenzione d’insospettirli per una stupida trascuratezza dei particolari.

La Raffaele continua a orbitare intorno all’abbagliante mondo di ghiaccio di Sol Draconis Septem, mentre i tre uomini dell’equipaggio giacciono nella loro bara-culla e le spie luminose dei monitor registrano la loro lenta risalita dalla morte. Il quarto ospite delle culle dorme. E non sogna.

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Mentre ci lasciavamo trasportare sulla zattera nel pianeta desertico, battendo le palpebre per difendere gli occhi dalla cruda luce del sole tipo G2 e bevendo acqua dalle ghirbe aria/acqua fatte con viscere di spettro artico, i nostri ultimi giorni su Sol Draconis Septem mi parvero un sogno che svanisce rapidamente.

Cuchiat e la sua banda si erano fermati a una cinquantina di metri dalla superficie (avevamo notato che nei tunnel l’aria si faceva sempre più rarefatta) e lì, nel frastagliato cunicolo di ghiaccio, ci eravamo preparati per la spedizione. Con nostro stupore i Chitchatuk si erano spogliati. Anche se per l’imbarazzo guardavamo da un’altra parte, avevamo notato che i Chitchatuk (anche le femmine, non solo i maschi) avevano corpi particolarmente muscolosi e massicci: parevano culturisti di un pianeta a gravità normale, appiattiti e compressi in esemplari più compatti. Cuchiat e la guerriera Chatchia avevano presieduto al nostro denudamento e alla preparazione per la superficie, mentre Chiaku e gli altri estraevano dalle sacche alcuni oggetti.

Osservammo i Chitchatuk e li imitammo nel rivestirci, con l’aiuto di Cuchiat e di Chatchia. Per i pochi secondi in cui fummo effettivamente nudi (usando come tappeto pellicce di spettro artico per non congelarci i piedi) fummo bruciati dal freddo. Poi indossammo una sottile membrana (la pelle interna degli spettri artici, venimmo a sapere più tardi) sagomata per adattarsi alle braccia, alle gambe e alla testa. Ma chiaramente per braccia, gambe e testa più piccole. Infatti era più che attillata: la membrana trasparente mi stringeva da tutte le parti, tanto da farmi sembrare una serie di palle di cannone in un involucro per salsicce. A. Bettik non aveva un aspetto migliore del mio. Dopo qualche istante capii che quelle membrane erano l’equivalente Chitchatuk delle tute spaziali… forse persino delle sofisticate dermotute che un tempo l’esercito dell’Egemonia usava nello spazio. Le membrane lasciavano passare il sudore e fornivano riscaldamento e raffreddamento, impedivano che i polmoni scoppiassero nel vuoto, che la pelle si screpolasse, che il sangue bollisse. Andavano calate sulla fronte e tirate sul mento, come un cappuccio, lasciando scoperti occhi, naso e bocca.

Cuchiat e Chatchia tolsero dalle sacche alcune maschere. Gli altri Chitchatuk le avevano già indossate. Erano evidentemente manufatti ottenuti dalla stessa membrana della tuta, con imbottiture di pelle di spettro artico cucite qua e là. Gli oculari erano ricavati dal cristallino degli occhi di spettro artico e offrivano una limitata capacità di vedere nel campo dell’infrarosso, come gli occhi delle vesti di pelliccia. Dal muso della maschera uscivano alcune spire d’intestino di spettro artico; Cuchiat cucì con cura a una delle ghirbe d’acqua l’estremità libera.

Quelle non erano semplici ghirbe, capii, vedendo che i Chitchatuk cominciavano a respirare da sotto la maschera: il braciere di pastiglie di combustibile liquefaceva il ghiaccio, ottenendo sia acqua sia gas atmosferico. I Chitchatuk avevano in qualche modo filtrato quella mistura d’atmosfera fino ad avere adeguate quantità d’aria respirabile. Provai a respirare attraverso la maschera… e mi lacrimarono gli occhi per la presenza, in quell’aria, di altri composti gassosi: una chiara traccia di metano e forse perfino d’ammoniaca. Ma era aria respirabile. Calcolai che una ghirba ne contenesse quantità sufficiente solo per un paio d’ore.

Sopra la tuta, indossammo la pelliccia di spettro artico. Cuchiat spinse più in basso del solito la testa della pelliccia e chiuse le zanne in modo da costringerci a guardare dalle lenti: la testa di spettro artico fungeva da rozzo casco sopra la tuta a pressione. Poi calzammo un paio di stivali di pelle di spettro artico, allacciati sui polpacci fin quasi al ginocchio. La pelliccia esterna allora fu rapidamente chiusa con alcuni colpi decisi dell’ago d’osso di Chiaku. La sacca d’acqua e la sacca d’aria pendevano da cinghie sotto la pelliccia, vicino a un lembo che poteva essere scucito e aperto rapidamente quando le sacche avevano bisogno d’essere riempite di nuovo. Chichticu, colui che portava il fuoco di pastiglie di combustibile, era continuamente indaffarato a liquefare atmosfera in acqua e aria, anche durante la marcia, e distribuiva le sacche di ricambio seguendo un ordine preciso, da Cuchiat (il primo) a me (l’ultimo). Almeno ora capivo la scala gerarchica della banda. Capii anche perché, quando in superficie c’era pericolo, la banda si disponeva in cerchio e proteggeva Chichticu, il portafuoco, che stava al centro. Non si trattava solo della sua importanza religiosa e simbolica. La sua costante vigilanza e il suo duro lavoro ci mantenevano in vita.

Mentre uscivamo dalla caverna nel vento turbinoso e sul ghiaccio della superficie, ci fu un’ultima aggiunta al nostro abbigliamento. Da un nascondiglio presso l’ingresso, Chiaku e gli altri recuperarono una provvista di lunghi pattini a lama, affilati come rasoi alla base, piatti e larghi in cima, che si adattavano perfettamente ai piedi. Anche i pattini furono allacciati mediante corregge di pelle. Quegli aggeggi erano un’efficace combinazione di pattini da ghiaccio e di sci da fondo. Percorsi goffamente dieci metri sul ghiaccio variegato, prima di capire che quei pattini erano artigli di spettro artico.

Avevo, lo confesso, una gran paura di cadere in quella gravità di 1,7 g, perché a ogni ruzzolone mi pareva di ricevere addosso l’equivalente di sette decimi di un altro Raul Endymion; ma ben presto imparammo il trucco per muoverci su quegli affari… e poi eravamo ben imbottiti. Alla fine, quando la superficie diventava troppo accidentata, usai uno dei tronchi della zattera come massiccio bastone da sci, procedendo come se fossi su una minizattera per una sola persona.

Mi piacerebbe avere un ologramma o una fotografia del nostro gruppo in quella gita. Con le pellicce, le tute, le sacche d’aria, i tubi, le lance d’osso, la mia carabina al plasma, gli zaini e gli artigli-sci, avevamo di sicuro l’aspetto di paleolitici astronauti della Vecchia Terra.

Andò tutto liscio. Sulla neve e sui sastrugi di cristalli di ghiaccio procedemmo più rapidamente di quanto non avessimo fatto nei tunnel. Se il vento soffiava da sud, cosa che accadde solo per una breve parte della . nostra marcia in superficie, potevamo allargare le braccia infagottate di pelliccia e lasciarci spingere sui tratti piani come se andassimo a vela.

Camminare sulla superficie d’atmosfera ghiacciata di Sol Draconis Septem aveva un’aspra ma memorabile bellezza. Quando il sole era alto, il cielo era vuoto e nero, come visto da una luna; ma un attimo dopo il tramonto, migliaia di stelle parevano spuntare all’improvviso. Durante il giorno le nostre vesti e le tute interne reagirono bene alle alte e basse temperature del quasi-spazio, ma era evidente che neppure i Chitchatuk sarebbero sopravvissuti al gelo della notte. Per fortuna mantenemmo una buona velocità e fummo obbligati a trovare riparo solo per un periodo di oscurità di sei ore: i Chitchatuk avevano progettato la partenza in modo che avessimo il vantaggio di una piena giornata di luce, prima di quella notte.

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