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Barnes-Avne non ricambia il sorriso. — La prossima volta potrebbe essere un vero intruso — replica. Parla nel microfono tattico. «Livello 5 prosegue. A S-meno sessanta, passiamo a Livello 6.»

Su tutte le bande arrivano segnali di conferma.

— Ancora non capisco chi potrebbe voler interferire — dice il Padre Capitano de Soya. — Né come potrebbe farlo.

Barnes-Avne si stringe nelle spalle. — Gli Ouster potrebbero traslare da C-più in questo stesso momento.

— Allora farebbero bene a portare un intero Sciame. Una forza appena appena inferiore non ci creerebbe grandi difficoltà.

— Niente nella vita è privo di difficoltà — commenta Barnes-Avne.

Lo skimmer tocca terra. Il portello gira sui cardini, la rampa si abbassa. Il pilota si gira nel sedile, alza il visore. — Comandante, Capitano — dice. — Volevate atterrare davanti alla Sfinge all’ora S-meno centodieci minuti. Siamo in anticipo di un minuto.

De Soya stacca il collegamento che lo lega al quadro comandi dello skimmer. — Vado a sgranchirmi le gambe prima che arrivi la tempesta — dice a Barnes-Avne. — Mi accompagna, se le fa piacere?

— No — risponde la donna. Abbassa il visore e comincia a trasmettere ordini.

Fuori dello skimmer l’aria è fina e carica d’elettricità. Il cielo ha sempre quel peculiare color lapislazzuli, ma già sul bordo meridionale del canyon si libra una caligine che indica l’approssimarsi della tempesta.

De Soya dà un’occhiata al cronometro. Centodieci minuti. Trae un profondo respiro, promette a se stesso di non guardare l’ora per almeno dieci minuti e fa quattro passi nell’ombra minacciosa della Sfinge.

12

Dopo ore di discussioni fui mandato a dormire fino alle tre del mattino. Naturalmente non dormii affatto. Ho sempre avuto difficoltà a dormire alla vigilia di un viaggio: quella notte non chiusi occhio.

La città di cui portavo il nome era silenziosa, dopo mezzanotte; la brezza autunnale era calata e le stelle risplendevano vividamente. Per un paio d’ore rimasi in camicia da notte, ma all’una mi alzai, indossai i robusti abiti avuti la sera precedente e per la quinta o sesta volta passai in rassegna il contenuto del mio zaino.

Non c’era molto, per un’avventura così scoraggiante: un cambio d’abiti e biancheria, calze, una torcia laser, due borracce d’acqua, un coltello (ne avevo precisato il tipo) nel fodero con cinturone, una pesante giubba di tela con fodera termica, una coperta ultraleggera da usare come giaciglio, una bussola inerziale, un vecchio maglione, occhiali per la visione notturna, un paio di guanti di pelle. — Cos’altro ti servirebbe per esplorare l’universo? — borbottai tra me.

Avevo anche precisato il tipo d’indumenti che avrei indossato quel giorno: una comoda camicia di tela e un giubbotto con numerose tasche, pesanti calzoni di saia del tipo che portavo a caccia d’anatre nelle paludi, alti stivali di pelle (immaginavo che fossero così gli "stivali da bucaniere" che Nonna descriveva nelle sue storie) un pelo troppo stretti e un morbido cappello a tricorno da piegare e tenere in tasca quando non ne avevo bisogno.

Mi agganciai il cinturone col coltello, misi nel taschino la bussola, mi accostai alla finestra e rimasi a guardare le stelle che giravano sulle cime delle montagne, finché A. Bettik non venne a chiamarmi, alle due e quarantacinque.

Il vecchio poeta era sveglio, sulla sedia a cuscino d’aria, a capotavola nel piano più alto della torre. Il tetto di tela era stato aperto e si vedevano le stelle, gelide, brillanti. Fiamme guizzavano nei bracieri lungo la parete; più in alto c’erano staffe con vere torce. La colazione era già in tavola: bistecche, frutta, focacce di farina integrale con sciroppo, pane fresco; presi solo una tazza di caffè.

— Faresti meglio a mangiare — brontolò il vecchio. — Non sai quando ti toccherà il prossimo pasto.

Rimasi in piedi a fissarlo. Il vapore del caffè mi scaldava il viso. L’aria era gelida. — Se tutto va secondo i piani — dissi — in meno di sei ore sarò nella nave spaziale. Mangerò allora.

Martin Sileno sbuffò rumorosamente. — Quando mai tutto va secondo i piani, Raul Endymion?

Sorseggiai il caffè. — A proposito di piani, doveva parlarmi di quella sorta di miracolo che distrarrà le Guardie Svizzere mentre porto via la sua giovane amica.

Il vecchio poeta mi scrutò in silenzio per qualche istante. — A questo riguardo abbi fiducia in me e basta, d’accordo? — replicò poi.

Sospirai. M’aspettavo una risposta del genere. — Le cose per cui devo fidarmi sono una montagna, vecchio.

Sileno annuì, ma non aprì bocca.

— E va bene — dissi alla fine. — Staremo a vedere cosa succede. — Mi girai verso A. Bettik, fermo accanto alla scala. — Non dimenticare di farti trovare là con la nave, quando ne avremo bisogno.

— Non me ne dimenticherò, signore.

Mi avvicinai al tappeto hawking disteso sul pavimento. A. Bettik vi aveva già messo il mio zaino. — Ultime istruzioni? — domandai, senza sapere bene a chi mi ero rivolto.

Il vecchio si avvicinò, librato sulla poltrona a cuscino d’aria. Nella luce delle torce pareva vecchissimo, più avvizzito e mummificato che mai. Le sue dita erano ossa ingiallite. — Solo questo — disse con voce rauca. — Ascolta…

Nell’ampio mare vive un disgraziato,
costretto a prolungare, indebolito,
l’odiata vita lungo dieci secoli
e morir solingo. Idear chi può
totale resistenza? Nessuno. Quindi
milioni di maree devono muoversi
vessando lui. Eppur non morirà,
quest’opere compiute. Ché se a fondo
sonda della magia gli abissi e spiega
il senso d’ogni moto, forma e suono,
s’egli indaga ogni forma e ogni sostanza
dritto fino al suo emblema e alla sua essenza,
non morirà. Inoltre e soprattutto,
quest’impresa di gioia e di dolore
perseguir deve con gran devozione…
gli amanti tutti, dal furor squassati
degli elementi, sommersi e perduti
fianco a fianco porrà finché strisciando
il tetro spazio il tempo riempirà:
ciò fatto, e maturate le fatiche,
avrà davanti un giovine, guidato
dal potere dei cieli e ad esso caro;
a lui assegnerà il coronamento
dell’opera. L’eletto la missione
concluderà, perché vivano entrambi.

— Cosa? — dissi. — non…

— Vaffanculo — sbottò il poeta. — Pensa solo a prendere Aenea, a portarla dagli Ouster e a riportarla indietro viva. Non è poi troppo complicato. Dovrebbe riuscirci perfino un pastore.

— Nonché allievo paesaggista, cameriere al banco e cacciatore d’anatre — replicai, posando la tazza di caffè.

— Sono quasi le tre. Devi muoverti.

Trassi un respiro. — Solo un minuto. — Scesi dabbasso e andai in gabinetto; fatti i bisogni, mi appoggiai per un momento alla fredda parete di pietra. "Sei impazzito, Raul Endymion?" mi dissi. Il pensiero era mio, ma lo udivo espresso dalla calma voce di Nonna. "Sì" risposi.

Risalii rapidamente le scale, sorpreso per come mi tremavano le gambe e mi batteva il cuore.

— Tutto fatto — annunciai. — Mia madre mi raccomandava sempre di pensarci prima d’uscire di casa.

Il millenario poeta borbottò qualcosa e spinse la sedia accanto al tappeto volante. Mi sedetti sul tappeto, attivai i filamenti di volo e mi librai a un metro e mezzo dal pavimento.

28
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