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Misi di nuovo gli occhiali per la visione notturna, mentre alle mie spalle la luce del sole svaniva. Quando l’oscurità si chiuse intorno a me, mi sentii rizzare i capelli. Presto gli occhiali sarebbero stati inutili, perché non ci sarebbe stata luce da amplificare. Tolsi dallo zaino il nastro adesivo e fissai la torcia laser sulla parte anteriore del tappeto, regolando il raggio su dispersione massima. La luce sarebbe stata fioca, ma gli occhiali l’avrebbero amplificata. Già scorgevo più avanti le prime diramazioni: la caverna era un prisma rettangolare, enorme e vuoto, trenta metri di lato, con solo piccolissimi segni di fenditure o di cedimenti; ancora più avanti, altri tunnel si aprivano a destra, poi a sinistra, poi verso il basso.

Inspirai a fondo e premetti i fili di volo nella sequenza del programma. Il tappeto balzò avanti e accelerò; l’improvviso sobbalzo mi spinse indietro, malgrado l’effetto di compensazione del campo di contenimento.

Quel campo non mi avrebbe protetto, se il tappeto avesse imboccato la curva sbagliata e si fosse schiantato a tutta velocità contro una parete. Rocce passarono come un lampo. Il tappeto si piegò ad angolo acuto per fare una svolta a destra, si livellò nel centro del lungo tunnel, si tuffò per seguire una diramazione che sprofondava.

Lo spettacolo era terrificante. Mi tolsi gli occhiali, li misi al sicuro nella tasca del giubbotto, mi aggrappai al bordo dello scalpitante tappeto e chiusi gli occhi. Avrei potuto risparmiare la fatica: ora il buio era assoluto.

13

Mancano ancora quindici minuti all’apertura della Sfinge e il Padre Capitano de Soya passeggia avanti e indietro nella valle. La tempesta è giunta fin lì e la polvere riempie l’aria, in una corrosiva tormenta. Centinaia di Guardie Svizzere sono schierate lungo il fondovalle, ma i loro veicoli corazzati, le piazzole di cannoni, le batterie di missili, i posti d’osservazione, sono tutti invisibili a causa della tempesta di polvere. De Soya sa che sarebbero comunque invisibili, nascosti da campi di mimetizzazione e da schermi di polimero camaleonte. Per scorgere qualcosa in quell’ululante tempesta deve affidarsi agli infrarossi. Anche col visore abbassato e chiuso, minuscole particelle di sabbia gli entrano nel colletto della tuta da combattimento e in bocca. Il giorno sa di sabbia. Per il sudore, de Soya ha sulla fronte e sulle guance piccole scie di fango rossastro, come sangue di una sacra stimmata.

«Attenzione» trasmette su tutti i canali. «Parla il Padre Capitano de Soya, responsabile di questa missione per ordine del Papa. Fra qualche secondo il comandante Barnes-Avne ripeterà questi ordini, ma al momento voglio mettere in chiaro che non ci saranno azioni di guerra, non si aprirà il fuoco, non si attueranno difese che in qualsiasi modo possano mettere a repentaglio la vita della bambina che uscirà da una di queste tombe… fra tredici minuti e mezzo. Voglio che l’ordine sia ben capito da ogni ufficiale e soldato della Pax, da ogni capitano di nave torcia e da ogni marinaio spaziale, da ogni pilota e da ogni ufficiale dei mezzi aerei: bisogna catturare la bambina, ma senza torcerle un capello! La mancata ubbidienza a quest’ordine avrà come risultato la corte marziale e l’esecuzione sommaria. Possiamo noi tutti in questo giorno servire il Nostro Signore e la nostra Chiesa… Nel nome di Gesù, Giuseppe e Maria, chiedo che il nostro sforzo abbia successo. Padre Capitano de Soya, comandante interinale della spedizione Hyperion, fine.»

Continua ad andare avanti e indietro, mentre dai canali tattici riceve un coro di: «Amen». A un tratto si ferma. «Comandante?» chiama.

«Sì, Padre Capitano.» Negli auricolari risuona la voce di Barnes-Avne, calmissima.

«Le rovinerei lo schieramento, se le chiedessi di mandare qui da me alla Sfinge la squadra del sergente Gregorius?»

C’è una brevissima pausa, segno di quanto poco apprezzi, il comandante delle forze a terra, simili cambiamenti dell’ultimo minuto. Il "comitato di ricevimento"… una squadra di Guardie Svizzere scelte appositamente, l’ufficiale medico pronto a somministrare il sedativo e un dottore con il crucimorfo vivente nel contenitore a stasi… in quello stesso momento è in attesa ai piedi della scalinata della Sfinge.

«Gregorius e i suoi soldati saranno lì in tre minuti» dice Barnes-Avne. De Soya può sentire gli ordini e le conferme correre sulla banda tattica a raggio compatto. Ancora una volta ha chiesto a quei cinque di volare in condizioni pericolose.

La squadra tocca terra dopo due minuti e quarantacinque secondi. De Soya può vederla solo col visore a infrarossi: gli zaini a reazione risplendono come al calor bianco.

— Posate gli zaini di volo — dice. — State accanto a me, qualsiasi cosa accada. Guardatemi le spalle.

— Sissignore — risponde il sergente Gregorius, con voce tonante per superare l’ululato del vento. Il gigantesco sottufficiale si avvicina: il suo casco e la tuta da combattimento si stagliano nel visore a infrarossi di de Soya. È chiaro che il sergente vuole una conferma visiva di colui al quale deve guardare le spalle.

«S-meno dieci minuti» dice Barnes-Avne. «I sensori indicano attività insolita nei campi antientropici intorno alle tombe.»

«La sento» trasmette de Soya. Infatti la percepisce. Lo spostamento dei campi temporali crea in lui un senso di vertigine non molto dissimile dalla nausea. Questo effetto e l’infuriare della tempesta di sabbia gli danno l’impressione di galleggiare, esilarato, quasi ubriaco. Piantando con cura i piedi sul terreno, de Soya torna verso la Sfinge. Gregorius e i suoi lo seguono in stretta formazione a V.

Il "comitato di ricevimento" è sui gradini della Sfinge. De Soya si avvicina, fa balenare il codice d’identificazione IR e radio, parla brevemente all’ufficiale medico, una donna, che tiene pronta la fiala di sedativo, l’ammonisce a non fare male alla bambina e si dispone ad aspettare. Ora sui gradini ci sono tredici sagome, contando anche la squadra di Gregorius. De Soya si rende conto che le due squadre di soldati con le armi pesanti in posizione non danno certo un’impressione di benvenuto.

— State qualche passo più indietro — ordina ai due capisquadra. — Tenetevi pronti, ma fuori vista nella tempesta.

— Affermativo. — I dieci soldati arretrano di dieci passi e scompaiono nella sabbia alzata dal vento. De Soya sa che nessuna creatura vivente potrebbe attraversare la loro linea.

Si rivolge all’ufficiale medico e al suo assistente, che porta il crucimorfo. — Andiamo più vicino alla porta — dice. Le due figure in tuta annuiscono e salgono con lui lentamente i gradini. I campi antientropici ora sono più intensi. De Soya ricorda che una volta, da ragazzino, sul suo pianeta natale, si è trovato fino al petto nel flusso e riflusso di onde che cercavano di trascinarlo al largo in un oceano ostile. Qui ha più o meno la stessa impressione.

«S-meno sette minuti» annuncia Barnes-Avne sulla banda comune. Poi, su quella a raggio compatto, si rivolge a de Soya. «Padre Capitano, vuole che lo skimmer scenda a prelevarla? Da quassù la vista è migliore.»

«No, grazie» risponde de Soya. «Resto con il gruppo di contatto.» Vede nel display che lo skimmer prende quota e si ferma a diecimila metri, al di sopra della parte peggiore della tempesta di sabbia. Come ogni buon comandante, Barnes-Avne vuole controllare l’azione senza esservi coinvolta.

De Soya passa sul canale privato che lo collega al pilota della sua navetta. «Hiroshe?»

«Sissignore.»

«Pronto a decollare tra dieci minuti o meno.»

«Pronto, signore.»

«La tempesta non darà problemi?» Come tutti i capitani da guerra nello spazio profondo, de Soya diffida più dell’atmosfera che di qualsiasi altra cosa.

«Nessun problema, signore.»

«Bene.»

«S-meno cinque minuti» annuncia con voce ferma Barnes-Avne. «I rivelatori orbitali non indicano attività spaziale nel raggio di trenta UA. La sorveglianza aerea dell’emisfero nord non indica presenza di velivoli. Il rilevamento a terra non indica movimenti non autorizzati dalla Briglia alla costa.»

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