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Sistemai Poneascu in un cespuglio che l’avrebbe tenuto nascosto pur consentendo una buona visuale del banco fangoso meridionale del più ampio tratto d’acqua aperta, gli indicai dove avrei sistemato le altre botti, gli dissi di guardare dalla feritoia della copertura di tela e di non mettersi a sparare prima che gli altri fossero al loro posto. Sistemai Rushomin a circa venti metri alla destra di Poneascu, trovai per Rolman un buon posto nei pressi della foce dell’immissario e tornai a prendere l’idiota che si era portato la carabina a energia. Il signor Herrig.

Mancava una decina di minuti al sorgere del sole.

— Era ora che si ricordasse di me, crocesanta! — sbottò il grassone, mentre m’avvicinavo a guado. Era già entrato nella botte e si era bagnato i calzoni di stoffa camaleonte. Bolle di metano fra la barca e la foce dell’immissario indicavano la presenza di una grossa sacca di fanghiglia mobile, per cui, quando andavo e tornavo, dovevo tenermi vicino al banco di fango.

— Non la paghiamo per sprecare così il suo tempo, crocesanta! — ringhiò ancora, senza togliersi di bocca il grosso sigaro.

Annuii, gli tolsi di bocca il sigaro acceso e lo tirai lontano dalla sacca di fanghiglia mobile: per nostra fortuna, le bolle di metano non avevano preso fuoco. — Le anatre sentono l’odore del fumo — dissi, senza badare al fatto che era rimasto a bocca aperta e che diventava sempre più rosso.

M’infilai nella cinghia di traino e rimorchiai la botte in piena palude, aprendomi col petto un varco fra le alghe rosse e arancione che dal mio ultimo passaggio avevano già ricoperto la superficie dell’acqua.

Accarezzando la costosa e inutile carabina a energia, Herrig mi lanciò un’occhiata velenosa. — Ragazzo — mi apostrofò — stai attento a come parli o t’insegno io, crocesanta! — Il suo poncho e il giubbotto di stoffa camaleonte non erano ben chiusi, lasciavano scorgere intorno al collo lo scintillio di una doppia croce d’oro della Pax e sul petto il rosso gonfiore del vero e proprio crucimorfo. Herrig era un cristiano rinato.

Rimasi in silenzio e sistemai nel modo dovuto la sua botte, a sinistra dell’immissario. Ora quei quattro esperti potevano sparare verso il centro della palude senza colpirsi l’un l’altro. — Tiri giù il telo e guardi dalla feritoia — dissi, staccando la cinghia di traino e legandola a una radice di chalma.

Herrig emise un borbottio, ma lasciò il telo mimetico arrotolato alle sbarre della cupola.

— Prima di sparare, aspetti che abbia sistemato le anatre da richiamo — soggiunsi. Indicai la posizione degli altri cacciatori. — E non spari verso la foce dell’immissario. Là ci sarò io, sulla barca.

Herrig non rispose.

Scrollai le spalle e tornai alla barca. Izzy era rimasta seduta dove le avevo ordinato di stare, ma dai muscoli tesi e dallo scintillio degli occhi capivo che in spirito saltellava avanti e indietro come un cucciolo. Le accarezzai il collo, senza salire sulla barca. — Ancora qualche minuto, bella — mormorai. Liberata dall’ordine di stare ferma, Izzy corse a prua e io cominciai a rimorchiare la barca verso la foce dell’immissario.

I luminosi ragnatelidi erano scomparsi e in alto svanivano le scie delle piogge di meteoriti, mentre la luce che precede l’alba s’addensava in un lucore latteo. La sinfonia d’insetti e il gracidio delle bande d’anfibi lungo i banchi di fango lasciavano posto ai richiami mattutini degli uccelli e di tanto in tanto al grugnito di un’aguglia che gonfiava la vescica in segno di sfida. A est il cielo cominciava a scurirsi nel color lapislazzuli del pieno giorno.

Tirai la barca al riparo delle fronde, con un gesto ordinai a Izzy di restare a prua e da sotto i banchi tolsi quattro anatre da richiamo. Lungo la riva c’era un sottilissimo strato di ghiaccio, ma il centro della palude era libero; cominciai a sistemare le anatre da richiamo, mettendole in funzione una alla volta. L’acqua m’arrivava sempre al petto.

Tornato alla barca, m’acquattai accanto a Izzy, nascosto dalle fronde. Allora giunsero le anatre vere. Izzy le sentì per prima: s’irrigidì e alzò il naso, come se le fiutasse nel vento. L’attimo dopo si udì il fruscio d’ali. Mi sporsi a scrutare dal fogliame in continuo movimento.

Nel centro della palude le anatre da richiamo nuotavano e col becco si lisciavano le penne. Una inarcò il collo e lanciò il richiamo, proprio mentre i veri germani reali comparivano sopra la linea d’alberi a sud. Tre germani si staccarono dallo stormo, protesero le ali per frenare e scivolarono lungo rotaie invisibili verso la palude.

Provai il brivido che sento sempre in un momento del genere: la gola mi si serra e il cuore accelera i battiti, pare fermarsi per un istante e mi duole realmente. Ho trascorso gran parte della vita in regioni remote, osservando la natura; ma il confronto con una simile bellezza tocca sempre nel mio intimo qualcosa che non ho parole per definire. Accanto a me, Izzy era rigida e immobile come statua d’ebano.

Allora iniziarono gli spari. I tre con la doppietta aprirono subito il fuoco e continuarono con la rapidità con cui riuscivano a espellere le cartucce. La carabina a energia tagliò l’aria sopra la palude, col suo sottile raggio di luce viola chiaramente visibile nella bruma mattutina.

Il primo germano reale fu colpito di sicuro da due o tre rose di pallini: si disintegrò in un’esplosione di penne e d’interiora. Il secondo ripiegò le ali e cadde a piombo, ormai privo d’ogni grazia e bellezza. Il terzo scivolò sulla destra, riprese l’assetto appena prima di toccare l’acqua, batté le ali per risalire. Il raggio d’energia lo seguì, tranciando foglie e rami, simile a una falce silenziosa. Gli spari risuonarono di nuovo, ma il germano parve anticiparli: si tuffò verso la palude, virò a destra, puntò dritto sulla foce dell’immissario.

Dritto su Izzy e su di me.

Volava a non più di due metri dall’acqua. Batteva con forza le ali, deciso a sfuggire ai cacciatori. Capii che voleva passare sotto gli alberi e seguire il corso d’acqua. L’insolito schema di volo aveva portato il germano reale fra le posizioni d’appostamento, ma i quattro cacciatori sparavano ancora.

Con la gamba destra spinsi la barca fuori del nascondiglio tra le fronde. — Cessate il fuoco! — gridai, col tono di comando che avevo acquisito nella breve carriera come sergente della Guardia Nazionale. Due smisero di sparare. Un fucile e la carabina a energia continuarono. Senza la minima esitazione il germano reale oltrepassò la barca, un metro alla nostra sinistra.

Izzy tremò in tutto il corpo e spalancò la bocca, come sorpresa che il germano ci sfiorasse a bassa quota. Il fucile non sparò, ma il raggio viola parve fare una panoramica su di noi nella foschia che cominciava a schiarirsi. Lanciai un grido e spinsi Izzy sul fondo della barca, fra i banchi.

Il germano reale lasciò il tunnel di rami di chalma alle nostre spalle e batté le ali per prendere quota. All’improvviso ci fu puzza d’ozono e una linea di fiamma perfettamente retta frustò la poppa della barca. Mi appiattii sul fondo, afferrai per il collare Izzy e la tirai vicino a me.

Il raggio viola mancò d’un millimetro le mie dita chiuse sul collare. Notai un breve lampo di stupore negli occhi di Izzy; poi il Labrador cercò d’appoggiarmi sul petto la testa, come faceva da cucciolo quando aveva qualcosa da farsi perdonare. Nel movimento, la testa e una parte del collo si staccarono dal resto del corpo e caddero con un lieve tonfo. Stringevo ancora il collare; il corpo di Izzy premeva contro il mio, le sue zampe anteriori tremavano ancora contro il mio petto. Poi il sangue m’inondò, sgorgando a fiotti dalle arterie recise di netto; rotolai da parte, scostando il corpo del cane decapitato e scosso dagli spasmi. Il sangue era caldo e sapeva di rame.

Il raggio d’energia frustò di nuovo l’aria, tagliò un grosso ramo di chalma a un metro dalla barca, svanì come se non fosse mai esistito.

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