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Scrivendo queste pagine, dopo tutti quegli anni, pensavo che sarebbe stato difficile ricordare Aenea bambina. Non è difficile. I miei ricordi sono così pieni degli anni seguenti, delle immagini successive (intensa luce del sole sul suo corpo di donna, mentre restiamo librati fra i rami della foresta orbitale, la prima volta che abbiamo fatto l’amore a gravità zero, girellando con lei sui passaggi pedonali sospesi di Hsuank’ung Su, con i dirupi rossorosati di Hua Shan che colgono l’intensa luce sopra di noi) al punto da farmi temere che quei primi ricordi sarebbero stati troppo inconsistenti. Non lo sono. E neppure ho ceduto all’impulso di saltare agli anni più recenti, malgrado il timore che questo resoconto possa essere interrotto a ogni istante dal sibilo quantistico-meccanico del gas venefico nella scatola di Schrödinger. Scriverò ciò che riuscirò a scrivere. Il destino determinerà il punto finale di questo resoconto.

A. Bettik ci precedette su per la scala a chiocciola fino alla sala con il pianoforte, mentre la nave ruggiva nello spazio. Il campo di contenimento manteneva costante la gravità, malgrado la pazzesca accelerazione, ma continuavo a sentirmi follemente esilarato… forse solo per le conseguenze di troppa adrenalina in breve tempo. La bambina era sporca, scarmigliata, ancora sconvolta.

— Voglio vedere dove siamo — disse. — Per favore.

La nave l’accontentò e trasformò in finestra la parete al di là della piazzola olografica. In basso il continente Equus rimpiccioliva e il muso del cavallo era oscurato da una nube di polvere rossastra. A nord, dove le nuvole coprivano il polo, il lembo di Hyperion era una curva netta. Nel giro d’un minuto l’intero pianeta fu un globo; due dei tre continenti erano visibili sotto nuvole sparse; il Grande Mare Meridionale era d’un azzurro da lasciare senza fiato, mentre l’arcipelago Nove Code era circondato dal verde delle secche. Poi Hyperion rimpicciolì, divenne una sfera d’azzurro-e-rosso-e-bianco, rimase indietro. Ce ne andavamo di fretta.

— Dove sono le navi torcia? — domandai all’androide. — Ormai avrebbero dovuto intimarci l’alt. O ridurci a pezzettini.

— La nave e io tenevamo sotto controllo i loro canali a larga banda — rispose A. Bettik. — Avevano… altro a cui pensare.

— Non capisco — dissi, camminando sul bordo della piazzola olografica, troppo agitato per accomodarmi sui soffici cuscini. — La battaglia… chi…

— Lo Shrike — intervenne Aenea e per la prima volta mi guardò davvero. — Mamma e io ci auguravamo che non andasse in questo modo, ma è accaduto. Mi dispiace. Mi dispiace davvero.

Mi resi conto che, nella tempesta, probabilmente la bambina non mi aveva udito; smisi di girare intorno alla piazzola, mi lasciai cadere sul bracciolo del divano. — In pratica non ci siamo ancora presentati — dissi. — Raul Endymion.

La bambina aveva occhi luminosi. Malgrado il fango e la sabbia sulle guance, vedevo la carnagione rosea. — Ricordo — disse. — Endymion, come la poesia.

— Poesia? Non so niente, di una poesia. Endymion come l’antica città.

Lei sorrise. — So che esiste una poesia con quel titolo solo perché la scrisse mio padre. Tipico di zio Martin, scegliere un eroe con quel nome.

Nell’udire la parola "eroe" mi sentii imbarazzato. L’intera faccenda si rivelava abbastanza assurda anche senza quell’appellativo.

La bambina tese la mano. — Aenea — disse. — Ma già lo sai.

Aveva le dita fredde. — Il vecchio poeta ha detto che hai cambiato nome varie volte.

Mantenne il sorriso. — E lo cambierò ancora, scommetto. — Ritrasse la mano e la tese all’androide. — Aenea. Orfana di tempo.

A. Bettik le strinse la mano, con più grazia di me; le rivolse un profondo inchino e si presentò. — Sono al suo servizio, signora Lamia — soggiunse.

Lei scosse la testa. — Mia madre è… era… la signora Lamia. Io sono semplicemente Aenea. — Notò il mio cambiamento d’espressione. — Sai di mia madre?

— È famosa — dissi, con un lieve rossore, per chissà quale ragione. — Tutti i pellegrini di Hyperion sono famosi. Leggendari, in realtà. C’è quel poema… racconto epico orale, a dire il vero…

Aenea si mise a ridere. — Oddio, zio Martin ha terminato i suoi maledetti Canti!

Rimasi sconvolto lo ammetto. Di sicuro, il mio viso lo rivelò. Per fortuna non giocavo a poker, quel mattino.

— Scusa — disse Aenea. — Evidentemente l’opera di quel vecchio satiro imbrattacarte è divenuta una sorta d’inestimabile retaggio culturale. È ancora vivo? Zio Martin, voglio dire.

— Sì, signora La… sì, signorina Aenea — disse A. Bettik. — Ho avuto l’onore d’essere al servizio di suo zio per più di un secolo.

La bambina fece una smorfia. — Sei di sicuro un santo, signor Bettik.

— A. Bettik, signorina Aenea — rettificò l’androide. — E, no, non sono un santo. Sono semplicemente un ammiratore di suo zio e lo conosco da vecchia data.

Aenea annuì. — Quando da Jacktown andavamo a fare visita a zio Martin, nella Città dei Poeti, ho incontrato alcuni androidi, ma non te. Più di un secolo, hai detto. In che anno siamo?

Le dissi l’anno.

— Be’, questa parte almeno è giusta — commentò Aenea. Rimase in silenzio e fissò l’ologramma del pianeta sempre più piccolo. Ormai Hyperion era solo un puntino luminoso.

— Sei davvero giunta dal passato? — domandai. Era una domanda sciocca, ma quel mattino non mi sentivo particolarmente brillante.

Aenea annuì. — Zio Martin te l’avrà detto.

— Sì. Scappi dalla Pax.

Aenea alzò gli occhi, lucidi di lacrime trattenute. — La Pax? La chiamano così?

Rimasi sorpreso. Mi sconvolgeva, il pensiero che qualcuno non avesse mai sentito parlare della Pax e ne ignorasse il concetto stesso. Eppure era vero. — Sì — risposi.

— Allora la Chiesa governa ogni cosa, adesso?

— Be’, in un certo senso. — Spiegai quale fosse il ruolo della Chiesa nella complessa entità conosciuta come Pax.

— Governa ogni cosa — concluse Aenea. — Pensavamo che potesse finire così. I miei sogni hanno azzeccato anche questo.

— I tuoi sogni?

— Lascia perdere — disse Aenea. Si alzò, esaminò la sala e si avvicinò allo Steinway. Ne trasse qualche nota. — E questa è la nave del Console — disse.

«Sì» confermò la nave «anche se ho solo un vago ricordo di quel tizio. Lei l’ha conosciuto?»

Aenea sorrise, continuando a sfiorare i tasti. — No. L’ha conosciuto mia madre. Glielo regalò… — indicò il tappeto hawking, sporco di sabbia, rimasto sul pavimento, accanto alla scala — quando lui lasciò Hyperion, dopo la Caduta. Per andare di nuovo nella Rete. Non tornò, nel mio tempo.

«Non è più tornato» confermò la nave. «Come ho avuto occasione di dire, i miei banchi di memoria sono rimasti danneggiati, ma sono sicura che sia morto laggiù da qualche parte.» Cambiò tono, divenne più pratica. «Ci hanno dato la voce, mentre lasciavamo l’atmosfera; ma da allora non ci hanno più intimato l’altolà e non ci inseguono. Siamo fuori dello spazio cislunare e fra dieci minuti lasceremo il pozzo gravitazionale di Hyperion. Devo stabilire la rotta per l’accelerazione. Ordini, prego.»

Guardai la bambina. — Gli Ouster? Il vecchio poeta ha detto che saresti voluta andare da loro.

— Ho cambiato idea — disse Aenea. — Nave, qual è il più vicino mondo abitato?

«Parvati. 1,28 parsec. Sei giorni e mezzo di transito, tempo/nave. Tre mesi di debito temporale.»

— Parvati faceva parte della Rete? — domandò Aenea.

Rispose A. Bettik. — No. Al tempo della Caduta, no.

— Qual è il più vicino mondo della Rete, partendo da Parvati?

«Vettore Rinascimento» rispose subito la nave. «Dieci giorni/nave e cinque mesi di debito temporale.»

Ero perplesso. — Non so — dissi. — I cacciatori… ah, i forestieri per cui lavoravo, in genere provenivano da Vettore Rinascimento. È un grosso mondo della Pax. Indaffarato. Pieno di navi e di soldati, credo.

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