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Sei ore più tardi, prima che i campi interni si accendano e nei complicati sarcofaghi abbia inizio la riparazione dei corpi, mentre nella cabina praticamente c’è ancora il vuoto, Rhadamanth Nemes si alza, sopporta senza la minima espressione il peso delle duecento gravità e va nella saletta di conferenze e al tavolo di rotta. Richiama una carta di Sol Draconis Septem e in breve trova il percorso del fiume Teti. Ordina alla nave di sovrapporvi i dati degli strumenti visivi a largo raggio e sfiora con le dita le immagini olografiche di valli di ghiaccio, di dune coperte di sestrugi, di crepacci glaciali. Dall’atmosfera ridotta in ghiacciaio emerge la parte superiore di un edificio. Nemes ricontrolla la mappa: l’edificio si trova nel raggio di trenta chilometri dal fiume sepolto.

Dopo undici ore di decelerazione, la Raffaele entra in orbita intorno alla candida palla di ghiaccio di Sol Draconis Septem. Ormai i campi interni sono accesi da un pezzo e i sistemi di supporto vita funzionano in pieno, ma Rhadamanth Nemes non ci fa caso, come non ha fatto caso al vuoto e alle 200 g. Prima di lasciare la nave, controlla i monitor della culla di risurrezione. Ha più di due giorni di tempo, prima che de Soya e i suoi uomini comincino a risvegliarsi.

Si accomoda nella navetta, collega il proprio polso al quadro comandi mediante un sottile cavo a fibra ottica e guida la nave nell’atmosfera, attraversando il terminatore, senza consultare la strumentazione né i monitor. Diciotto minuti più tardi la navetta atterra sulla superficie del pianeta, a duecento metri dalla tozza torre stagliata nel ghiaccio.

La luce del sole è vivida sul ghiacciaio a terrazze, ma il cielo è di un nero uniforme. Non ci sono stelle visibili. Per quanto lì l’atmosfera sia trascurabile, il massiccio sistema termale del pianeta che fluisce da polo a polo provoca "venti" continui che spingono cristalli di ghiaccio a quattrocento chilometri all’ora. Senza degnare di un’occhiata le tute spaziali e quelle per atmosfere pericolose, appese nella camera stagna, Rhadamanth Nemes spalanca il portello. Non attende che la scaletta si allunghi, salta giù direttamente da tre metri e atterra in piedi nel campo gravitazionale di 1,7 g. Aghi di ghiaccio la colpiscono alla velocità dei proiettili di pistole a fléchettes.

Nemes aziona una fonte interna che attiva un campo biomorfico a 0,8 millimetri dal suo corpo. A un osservatore esterno la robusta donna con corti capelli neri e inespressivi occhi neri diventa all’improvviso una lucente scultura d’argento vivo in forma umana. Rhadamanth Nemes percorre a trenta chilometri all’ora il frastagliato ghiacciaio, si ferma davanti all’edificio, non trova ingressi e col pugno sfonda un pannello di plastacciaio. Varca lo squarcio e cammina senza difficoltà sul ghiaccio liscio fino all’imboccatura di un pozzo d’ascensore. Strappa via la botola incavata dal peso del ghiaccio. Da tempo ormai gli ascensori sono precipitati nello scantinato, ottanta e passa piani più in basso.

Rhadamanth Nemes entra nel pozzo aperto e si lascia cadere: precipita nel buio a 33,1 metri al secondo. Appena vede passare la luce, si blocca afferrandosi a una trave d’acciaio. Ha già raggiunto la velocità terminale di più di cinquecento chilometri all’ora, ma decelera a zero in meno di tre centesimi di secondo.

Dal pozzo dell’ascensore passa nella stanza: nota i mobili, le lanterne, gli scaffali di libri. Il vecchio è nella cucina. Alza la testa, quando sente i rapidi passi. — Raul? — chiama. — Aenea?

— Proprio loro — dice Rhadamanth Nemes. Conficca due dita sotto la clavicola del vecchio, lo solleva da terra. — Dov’è la bambina Aenea? — domanda a voce bassa. — Dove sono gli altri?

Per quanto possa sembrare strano, il vecchio prete non grida di dolore. Stringe i denti, con gli occhi ciechi fissa il soffitto, ma dice solo: — Non lo so.

Nemes annuisce e lascia cadere a terra il prete. Si mette a cavalcioni sul petto del vecchio, punta l’indice contro l’occhio e spara nel cervello un microfilamento di ricerca: la sonda trova la strada verso una regione precisa della corteccia cerebrale.

— Ora, Padre — dice Rhadamanth Nemes — riproviamo. Dov’è la bambina? Chi è con lei? Dove sono?

Le risposte cominciano a fluire nel microfilamento, sotto forma di raffiche codificate d’energia neurale morente.

46

I nostri giorni in compagnia di padre Glauco furono memorabili per le comodità, per il loro lento trascorrere dopo tante settimane di frettolosi spostamenti a destra e a manca, per le conversazioni. Li ricordo soprattutto, credo, per le conversazioni.

Poco prima del ritorno dei Chitchatuk venni a sapere una delle ragioni per cui A. Bettik aveva intrapreso con me quel viaggio.

— Lei ha fratelli, signor Bettik? — domandò padre Glauco, rifiutandosi di usare il prefisso, Androide.

Con mia sorpresa, A. Bettik rispose: — Sì. — Com’era possibile? Gli androidi erano progettati e biocostruiti assiemando elementi genetici, crescevano in vasche di coltura… come gli organi per i trapianti, avevo sempre pensato.

— Durante la biocostruzione — continuò A. Bettik, sollecitato dal vecchio prete — gli androidi erano per tradizione donati in gruppi di cinque unità… in genere quattro maschi e una femmina.

— Cinque gemelli — disse padre Glauco, dalla sedia a dondolo. — Quindi lei ha tre fratelli e una sorella.

— Sì — rispose l’uomo dalla pelle azzurra.

— Ma di sicuro non siete stati… — cominciai, fermandomi subito. Mi strofinai il mento. Nell’insolita casa di padre Glauco mi ero rasato (m’era parsa la cosa da fare, per tornare civile) e quasi mi sorpresi per la sensazione di pelle liscia. — Ma di sicuro non siete cresciuti insieme — mi corressi. — Voglio dire, gli androidi non erano…

— Biocostruiti già adulti? — terminò per me A. Bettik, con lo stesso lieve sorriso. — No. Il processo di crescita era accelerato… noi abbiamo raggiunto la maturità a circa otto anni standard… ma c’era un periodo d’infanzia e di fanciullezza. Era questa, una delle ragioni per cui la biocostruzione di androidi aveva costi quasi proibitivi.

— Come si chiamano i suoi fratelli e sua sorella? — domandò padre Glauco.

A. Bettik chiuse il libro che stava sfogliando. — Era tradizione dare al quintetto nomi in ordine alfabetico — rispose. — I miei fratelli si chiamano A. Anttibe, A. Corresson, A. Darria e A. Ewik.

— Chi è tua sorella? — domandò Aenea. — Darria?

— Sì.

— Com’era la vostra infanzia?

— Soprattutto istruzione, addestramento ai compiti e definizione dei parametri di servizio — rispose A. Bettik.

Aenea se ne stava distesa sul tappeto, mento fra le mani. — Andavate a scuola? Giocavate?

— Abbiamo ricevuto lezioni, nella fabbrica, ma la massa delle nostre conoscenze ci è giunta mediante trasferimento RNA. — Guardò Aenea. — E se per "giocare" intende trovare il tempo per rilassarmi con i miei fratelli, la risposta è sì.

— Cos’è accaduto ai tuoi fratelli?

A. Bettik scosse lentamente la testa. — Entrammo in servizio tutti insieme, ma poco dopo fummo separati. Fui acquistato dal Regno di Monaco-in-esilio e spedito su Asquith. Da quanto ne sapevo a quel tempo, ognuno di noi avrebbe fatto servizio in parti diverse della Rete o della Frontiera.

— E non hai mai più sentito nessuno di loro? — domandai.

— No. Dopo il trasferimento su Hyperion della colonia di Re William XXIII, fu importato un gran numero di operai androidi per la costruzione della Città dei Poeti; molti erano stati in servizio su Asquith prima di me, ma nessuno di loro aveva incontrato i miei fratelli.

— Ai tempi della Rete — dissi — era facile fare ricerche sugli altri mondi mediante teleporter e sfera dati.

— Sì, ma agli androidi era proibito per legge e per inibitori RNA viaggiare tramite teleporter e accedere direttamente alla sfera dati. E poi, poco dopo la mia creazione, fu illegale biocostruire o possedere androidi nell’ambito dell’Egemonia.

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