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Non c’erano montagne né altre asperità più grosse di creste o ruscelli di ghiaccio, a parte le prime ore, quando il sole nascente colpì un oggetto ghiacciato a sud dalla nostra posizione. Quella, capii, era la punta del grattacielo di padre Glauco che sporgeva dal ghiaccio, molti chilometri più lontano. A parte quello, la superficie era così piatta che per un minuto mi domandai come facessero i Chitchatuk a orizzontarsi; ma poi vidi Cuchiat dare un’occhiata al sole e alla propria ombra. In quella breve giornata procedemmo sui pattini verso nord.

Sciando/pattinando, i Chitchatuk mantenevano una stretta formazione difensiva con al centro il portafuoco e stregone addetto al fuoco e alle sacche d’aria/acqua, ai lati guerrieri armati di lancia, Cuchiat all’avanguardia e Chiuaku (il vicecapo, capimmo ora) alla retroguardia, tanto impegnato a guardarsi alle spalle da pattinare quasi a ritroso. Ciascun Chitchatuk portava intorno alla veste di pelliccia una matassa di corda di spettro artico (durante la vestizione, anche noi eravamo stati equipaggiati allo stesso modo) e capii meglio lo scopo di tutte quelle corde quando Cuchiat si fermò di colpo e pattinò a est per evitare diversi crepacci che per me erano stati invisibili. Guardai in uno di essi (la fenditura pareva sprofondare nelle tenebre eterne) e cercai d’immaginare come ci si sarebbe sentiti a cadere in quell’abisso. Più tardi, quello stesso pomeriggio, uno degli esploratori scomparve in un’improvvisa e silenziosa esplosione di cristalli di ghiaccio… solo per riapparire un attimo dopo, mentre Chiaku e Cuchiat preparavano le corde di salvataggio. Il guerriero aveva bloccato la propria caduta, si era tolto i pattini e li aveva usati come ramponi da ghiaccio, scavandosi la strada su per la ripida parete della fenditura, come uno scalatore. Stavo imparando a non sottovalutare i Chitchatuk.

Quel primo giorno non scorgemmo spettri artici. Al tramonto capimmo, malgrado lo sfinimento, che Cuchiat e gli altri avevano smesso di pattinare verso nord e facevano un largo giro, scrutando giù nel ghiaccio come se cercassero qualcosa. Intanto l’esile vento ci sferzava con cristalli di ghiaccio. Se fossimo stati in tuta spaziale, sono convinto che il visore si sarebbe rigato e rovinato. Le pellicce e gli oculari di cristallino non mostravano di risentirne.

Finalmente Aichacut, che si era allontanato verso ovest, agitò il braccio (impossibile comunicare a voce, con le maschere e nel vuoto) e andammo tutti da quella parte; ci fermammo in un punto che non pareva diverso dal resto. Cuchiat ci segnalò di stare lontano, slegò l’ascia che gli avevamo regalato e iniziò a spaccare il ghiaccio. Quando lo strato superficiale cedette, vedemmo che non si trattava di un normale crepaccio ma dello stretto ingresso di una caverna. Quattro guerrieri impugnarono la lancia, Chichticu si unì a loro portando la lampada di braci e il gruppetto, preceduto da Cuchiat, strisciò nel foro, mentre noi e gli altri aspettavamo nella solita formazione difensiva.

Dopo qualche istante Cuchiat sporse la testa e a gesti ci segnalò di entrare. Impugnava ancora l’ascia e immaginai che dietro il visore di zanne e sotto la maschera avesse un largo sorriso. L’ascia era stato un dono importante.

Trascorremmo così la notte in una tana di spettro artico. Aiutai Chiaku a chiudere con neve e ghiaccio l’ingresso; poi, con blocchi e grossi frammenti turammo un altro metro di cunicolo e infine entrammo a guardare Chichticu che scioglieva pezzi di ghiaccio per riempire la tana d’aria sufficiente a respirare. Dormimmo affastellati insieme, ventitré individui del Popolo Indivisibile e i tre Viandanti Indivisibili, tenendo indosso le vesti di pelliccia e le tute, ma togliendo le maschere, respirando il gradito odore del sudore altrui. Il calore del mucchio ci tenne in vita durante la terribile notte, mentre tempeste di Coriolis e bufere catabatiche scagliavano frammenti di ghiaccio a velocità prossima a quella del suono… se suono ci fosse stato, in quel vuoto quasi assoluto.

Ricordo ancora un particolare della nostra ultima notte con i Chitchatuk. La tana di spettro artico era tappezzata, completamente tappezzata, di teschi e di ossa umane, incastonati nelle pareti del covo, con quella che pareva la cura d’un artista.

Durante il viaggio del giorno seguente non vedemmo spettri artici, né cuccioli né adulti; poco prima del tramonto ci togliemmo i pattini, li depositammo in una nicchia e imboccammo i tunnel di ghiaccio sopra il secondo teleporter. A una certa profondità ci trovammo di nuovo nell’aria imprigionata; allora ci togliemmo la maschera e la membrana-tuta e le restituimmo a Chatchia, ma con qualcosa di simile alla riluttanza: era come rinunciare al contrassegno d’appartenenza al Popolo Indivisibile.

Cuchiat parlò brevemente. Non riuscii a seguire la raffica di parole, ma Aenea tradusse: — Siamo stati fortunati… e qualcosa a proposito di quanto sia insolito non dover affrontare spettri artici nella traversata della superficie… ma, dice lui, la fortuna in un giorno quasi sempre porta alla sfortuna nel giorno appresso.

— Digli che mi auguro che si sbagli.

Vedere il fiume libero, con la foschia e il soffitto di ghiaccio, fu quasi un colpo. Eravamo tutti sfiniti, ma ci mettemmo subito al lavoro. Non era facile, calzando guanti di spettro artico, legare i tronchi accorciati e montare la zattera, ma i Chitchatuk lavorarono rapidamente per aiutarci e nel giro di due ore ottenemmo una versione sgraziata e ridotta della nostra precedente imbarcazione… senza albero maestro, senza tenda, senza focolare. Ma il timone era al suo posto e le pertiche, seppure più corte di prima e giuntate, avrebbero funzionato, pensavamo, in quel tratto poco profondo del Teti.

Il commiato fu più triste di quanto non avessi immaginato. Ciascuno abbracciò tutti gli altri almeno due volte. Sulle lunghe ciglia di Aenea c’erano frammenti di ghiaccio e ammetto d’avere sentito una profonda emozione bloccarmi la gola.

Poi fummo nella corrente (mi parve bizzarro, viaggiare senza muovere le gambe: avevo ancora nei muscoli e nella mente l’eco del movimento spinta-e-scivolata sui pattini-artigli di spettro artico) e vedemmo avvicinarsi il teleporter e la muraglia di ghiaccio; ci chinammo per passare sotto l’arcata sempre più bassa e all’improvviso ci trovammo… altrove.

A colpi di pertica avanzammo nel sole nascente. Ora il fiume era largo e calmo; la corrente, lenta ma continua. Le rive erano di pietra rossiccia, striate come un’ampia e graduale scalinata che emergesse dall’acqua; il deserto era di roccia rossastra, con piccoli arbusti gialli; anche i lontani lastroni dell’altura e dell’arcata erano di liscia pietra rossa. Tutto quel colore rossastro era acceso dall’enorme sole rosso che si levava alla nostra sinistra. La temperatura superava già d’un centinaio di gradi quella della caverna di ghiaccio. Ci schermammo gli occhi e ci togliemmo le pellicce di spettro artico, sistemandole come folti tappeti bianchi a prua della zattera. Gli strati di ghiaccio sui tronchi dapprima luccicarono, poi si sciolsero nel sole del mattino.

Fummo sicuri di trovarci su Qom-Riyadh ancora prima di consultare il comlog o la guida del Teti. Fu il deserto di roccia rossastra a darci l’indizio… ponti d’arenaria rosso vivo, colonne scanalate di pietra rossa che si ergevano contro il cielo rosa, delicati archi rossi che facevano sembrare insignificante il teleporter sempre più lontano. Il fiume scorreva lungo canaloni sovrastati a mo’ d’arco da quelle parabole di pietra rossa, poi curvava in una vallata più ampia dove il caldo vento muoveva la gialla artemisia e sollevava una polvere rossa che s’infilava nei lunghi, tubolari "peli" delle pellicce di spettro artico e ci entrava nella bocca e negli occhi. Verso mezzogiorno ci muovevamo attraverso una vallata più fertile. Canali d’irrigazione si dipartivano ad angolo retto dal fiume e basse palme gialle e caprifogli rosso magenta costeggiavano gli argini. Ben presto comparvero piccoli edifici e subito dopo vedemmo un intero villaggio di case ocra e rosa, ma nessuna persona.

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