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— Come Hebron — mormorò Aenea.

— Non lo sappiamo — obiettai. — Forse la gente lavora da qualche parte fuori vista.

Mezzogiorno passò e fu pomeriggio, sempre più caldo… Qom-Riyadh, secondo la guida, aveva un giorno di ventidue ore. Per quanto i canali aumentassero di numero, le piante si moltiplicassero e i villaggi diventassero più frequenti, non c’era traccia d’esseri umani né di animali domestici. Due volte spingemmo a riva la zattera… una volta per attingere acqua da un pozzo artesiano e un’altra per esplorare un piccolo villaggio da cui proveniva un martellio che si udiva anche sul fiume. Era causato da una finestra a vasistas, rotta, che sbatteva al vento.

All’improvviso, con un grido di dolore, Aenea si piegò in due. Mi acquattai e con la pistola al plasma tenni sotto mira la via deserta, mentre A. Bettik accorreva al fianco di Aenea. Nella via non c’era nessuno. Non c’era movimento dietro le finestre.

— Niente, niente — ansimò Aenea, mentre l’androide la sorreggeva. — Una fitta improvvisa…

Accorsi anch’io, sentendomi sciocco per avere estratto la pistola. La rimisi nella fondina alla cintura, mi chinai, strinsi la mano di Aenea. — Cosa c’è, ragazzina? — Vidi che piangeva.

— Non… lo… so — riuscì a rispondere, fra i singhiozzi. — È avvenuto… qualcosa… di terribile… non so.

La portammo di peso alla zattera. — Per favore — mormorò Aenea, battendo i denti malgrado il caldo — andiamocene. Andiamo via di qui.

A. Bettik rizzò la microtenda, che ora occupava la maggior parte del pianale. Mettemmo all’ombra le pellicce di spettro artico, vi deponemmo la bambina e le demmo da bere un po’ d’acqua.

— È quel villaggio? — domandai. — Qualcosa, in quel villaggio, ti ha…

— No — disse Aenea, fra singhiozzi senza lacrime. La vedevo lottare contro ondate d’emozione che la travolgevano. — No… qualcosa di spaventoso… su questo pianeta, ma anche… dietro di noi.

— Dietro di noi? — Guardai fuori della tenda e a monte, ma vidi solo la vallata, l’ampio letto del fiume e il villaggio che rimpiccioliva, con le sue palme gialle squassate dal vento.

— Dietro di noi nel pianeta di ghiaccio? — domandò piano A. Bettik.

— Sì — riuscì a rispondere Aenea, prima di piegarsi in due per il dolore. — Fa… male.

Posai la mano sulla fronte di Aenea e sullo stomaco. La pelle era più calda del normale, anche tenendo conto del caldo della vallata e delle scottature solari sul viso e sulle braccia. Prendemmo dal mio zaino un medipac e le applicai un cerotto diagnostico. Il medipac indicò febbre alta, un dolore di livello 6,3 della scala algometrica, crampi muscolari e un elettroencefalogramma irregolare. Consigliò acqua, antinfiammatorio e l’intervento di un medico.

— C’è una città — disse A. Bettik, mentre il fiume girava intorno a un promontorio a picco.

Uscii dalla tenda per guardare. Le torri rosso-rosa, le cupole e i minareti erano ancora distanti, forse quindici chilometri nella vallata sempre più ampia, e la corrente del fiume non aveva nessuna fretta. — Resta con lei — dissi all’androide e mi spostai sulla destra per usare la pertica. La nostra zattera accorciata era molto più leggera della vecchia e ci muovemmo rapidamente con la corrente.

A. Bettik e io consultammo la guida macchiata d’acqua e decidemmo che la città era Mashhad, capitale del continente meridionale e sede della Grande Moschea, di cui ora vedevamo chiaramente i minareti, mentre il fiume passava fra villaggi sempre più grossi, quartieri periferici, zone industriali ed entrava nella città vera e propria. Aenea dormiva di un sonno inquieto. La febbre era aumentata e il medipac pulsava di spie rosse per suggerire l’intervento di un medico.

Mashhad era irrealmente deserta, come Nuova Gerusalemme.

— Mi pare di ricordare una voce secondo cui il sistema di Qom-Riyadh era caduto in mano agli Ouster più o meno nello stesso periodo in cui gli Ouster conquistarono la nebulosa Sacco di Carbone — dissi. A. Bettik lo confermò, dicendo che lui e Sileno, per tenersi al corrente, avevano seguito dalla città universitaria il traffico radio della Pax.

Ormeggiammo la zattera a un basso pontile e portai Aenea nell’ombra delle vie. Era una ripetizione di quanto accaduto su Hebron, ma stavolta io ero in buone condizioni e Aenea era priva di sensi. Presi l’appunto mentale d’evitare d’ora in poi i pianeti desertici, se potevo.

Le vie erano meno ordinate di quelle di Nuova Gerusalemme: veicoli da terra parcheggiati malamente e abbandonati sui marciapiedi, detriti spinti dal vento, finestre e porte spalancate alla sabbia rossastra e bizzarri tappetini stesi sui marciapiedi, nelle vie, sui prati morenti. Mi soffermai davanti al primo gruppo di tappetini, pensando che potessero essere tappeti hawking. Erano solo comuni tappeti. Orientati tutti nella stessa direzione.

— Tappeti di preghiera — disse A. Bettik, mentre tornavamo nell’ombra della via. Anche gli edifici più alti non superavano i minareti che spuntavano da una zona a parco con alberi tropicali. — La popolazione di Qom-Riyadh era quasi al cento per cento islamica — continuò l’androide. — Si dice che qui la Pax non abbia trovato spazio, nemmeno con la promessa della risurrezione. La gente non voleva avere niente a che fare col Protettorato.

Girai l’angolo, cercando sempre un ospedale o un segno che potesse condurci a un ospedale. Avevo contro il collo la fronte di Aenea: scottava. Il respiro della bambina era rapido e irregolare. — Credo che questo mondo fosse citato nei Canti - dissi. Mi pareva che la bambina non pesasse niente.

A. Bettik annuì. — Il signor Sileno parlò della vittoria sul cosiddetto Nuovo Profeta ottenuta qui dal colonnello Kassad circa trecento anni fa.

— Gli Sciiti ripresero il potere dopo il crollo della Rete, vero? — Guardammo in un’altra via trasversale. Cercavo una mezzaluna rossa, non il segno universale dell’aiuto medico, la croce rossa.

— Sì — confermò A. Bettik. — E si opposero violentemente alla Pax. Si pensa che abbiano accolto con favore gli Ouster, quando la flotta della Pax si ritirò da questo settore.

Guardai le vie deserte. — Be’, pare che gli Ouster non abbiano apprezzato l’accoglienza. Qui è come su Hebron. Dove credi che siano spariti tutti? Possibile che gli Ouster abbiano preso in ostaggio la popolazione di un intero pianeta e…

— Guardi, un caduceo — m’interruppe A. Bettik.

L’antico simbolo raffigurante un bastone alato con due serpenti intrecciati si trovava sulla finestra di un alto edificio. L’interno dello stabile era a soqquadro, ma pareva la sede di normali uffici, non un ospedale. A. Bettik si accostò a un’insegna digitale che srotolava linee di testo in arabo. E che borbottava con voce meccanica.

— Sai leggere l’arabo? — domandai.

— Sì. Capisco anche qualcosa della lingua parlata, che è il farsi. Al nono piano c’è una clinica privata. Oserei dire che dovrebbe avere un centro diagnostico e forse un robochirurgo.

Puntai alle scale, sempre tenendo in braccio Aenea, ma A. Bettik provò a vedere se l’ascensore funzionava. Il pozzo di vetro ronzò e una vettura a levitazione venne a fermarsi al nostro piano.

— Strano che ci sia ancora l’energia elettrica — dissi.

Salimmo al nono piano. Aenea si svegliò e cominciò a lamentarsi, mentre percorrevamo il corridoio piastrellato, attraversavamo un giardino pensile dove palme gialle e verdi frusciavano al vento, ed entravamo in una bella stanza a vetrate, con file di lettini robochirurgici e un’apparecchiatura diagnostica centralizzata. Scegliemmo il lettino accanto alla finestra, spogliammo la bambina, lasciandole solo la biancheria, e la mettemmo fra le lenzuola pulite. Sostituimmo con gli appositi filamenti i cerotti diagnostici del medipac e aspettammo che si accendessero i pannelli diagnostici. La voce sintetizzata parlava in farsi e una parte dei dati era scritta in arabo, ma c’era una banda in inglese della Rete e noi passammo su quella.

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