Литмир - Электронная Библиотека
Содержание  
A
A

Il robochirurgo diagnosticò sfinimento, disidratazione e un insolito schema elettroencefalografico forse dovuto a un grave colpo alla testa. A. Bettik e io ci guardammo. Aenea non aveva ricevuto nessun colpo alla testa.

Autorizzammo la cura per lo sfinimento e la disidratazione e ci scostammo, mentre cinture di flussoschiuma fuoruscivano dai pannelli del letto, pseudodita cercavano la vena e un’endovenosa lasciava colare una soluzione salina e un sedativo.

Nel giro di qualche minuto la bambina dormiva serenamente. Il pannello diagnostico parlò in arabo e A. Bettik tradusse prima che io mi chinassi a leggere sul monitor. — Dice che il paziente dovrebbe trascorrere una buona notte di riposo e domattina si sentirà meglio.

Cambiai posizione alla carabina al plasma, che portavo legata sulla schiena. I nostri zaini impolverati erano sopra una delle sedie per i visitatori. Mi accostai alla finestra e dissi: — Esco a controllare la città prima che faccia buio. Per accertarmi che non ci sia nessuno.

A. Bettik incrociò le braccia e guardò il grande sole rosso sfiorare la cima degli edifici dall’altra parte della via. — Credo proprio che non ci sia nessuno — disse. — Qui è stato necessario un po’ più di tempo, ecco tutto.

— Per cosa è stato necessario un po’ più di tempo?

— Per ciò che ha portato via la gente. Su Hebron non c’era segno di panico né di lotta. Qui la gente ha avuto il tempo di abbandonare i veicoli. Ma i tappeti di preghiera sono l’indizio più sicuro. — Per la prima volta notai le sottili rughe sulla fronte dell’androide e intorno agli occhi e alla bocca.

— L’indizio più sicuro?

— Sapevano che stava per accadere qualcosa e hanno trascorso in preghiera gli ultimi minuti.

Posai contro la sedia la carabina al plasma e slacciai la falda della fondina. — Vado lo stesso a fare un giro — dissi. — Tieni d’occhio Aenea, nel caso si svegli, d’accordo? — Presi dallo zaino le ricetrasmittenti, ne diedi una all’androide, mi agganciai al colletto l’altra e sistemai il microfono a goccia. — Tieni aperta la frequenza comune. Farò rapporti di controllo. Chiamami, in caso di necessità.

A. Bettik era fermo accanto al lettino. Toccò delicatamente la fronte della bambina addormentata. — Sarò qui, quando Aenea si sveglierà, signor Endymion.

È curioso che ricordi con tanta chiarezza il giro di quella sera nella città abbandonata. L’insegna digitale di una banca diceva che c’erano 40 gradi, ma il vento secco del deserto di roccia rossastra portava via in fretta il sudore e il tramonto rossorosato aveva su di me un effetto calmante. Forse ricordo quella sera perché fu l’ultima notte del nostro viaggio, prima che tutto cambiasse per sempre.

Mashhad era un bizzarro miscuglio di città moderna e di bazar del tipo che compare nelle Mille e una notte, una meravigliosa serie di storie che Nonna soleva raccontarmi sotto il cielo stellato di Hyperion. Quel posto aveva intorno a sé un pungente odore di leggenda. Nell’angolo c’era un chiosco di giornali e uno sportello automatico di banca; appena si girava l’angolo, c’erano banchetti in mezzo alla via, con tendoni dai colori vivaci e montagne di frutta che marciva nei contenitori. Immaginavo benissimo il frastuono e il traffico di quel luogo… cammelli o cavalli o altri animali pre-Egira che giravano in tondo e battevano gli zoccoli, cani che abbaiavano, venditori che imbonivano e clienti che tiravano sul prezzo, donne in chador nero e burqa di trina che passavano con andatura flessuosa, mentre sui lati della via le inefficienti e barocche vetture rombavano e sputavano puzzolente monossido di carbonio o chetoni o qualsiasi robaccia velenosa con cui gli antichi motori a combustione interna ammorbavano l’aria…

Il mio sogno a occhi aperti fu interrotto all’improvviso da una musicale voce maschile le cui parole echeggiarono nei canyon di pietra e d’acciaio della città. La voce pareva provenire dal parco a un paio d’isolati alla mia sinistra; corsi da quella parte, mano sul calcio della pistola nella fondina già sbottonata.

«Hai sentito?» dissi nel microfono, senza smettere di correre.

«Sì» rispose nella cuffia A. Bettik. «La porta del balcone è aperta e qui il suono è assai chiaro.»

«Pare arabo. Puoi tradurre?» Ansimavo solo un poco, mentre terminavo la corsa di due isolati ed entravo nella zona del parco, dove la moschea dominava tutti gli edifici. Qualche minuto prima, avevo guardato in una delle vie trasversali e avevo visto gli ultimi raggi di sole dipingere la facciata laterale di uno dei minareti, ma ora quella torre di pietra era di un grigio smorto e solo i più alti cirri sfilacciati riflettevano la luce.

«Sì» disse A. Bettik. «Un muezzin chiama alla preghiera della sera.»

Dall’astuccio agganciato alla cintura presi il binocolo e scrutai i minareti. La voce proveniva da altoparlanti posti in una delle balconate che cingevano ogni torre. Lassù non c’era segno di movimento. Il ritmico grido tacque di colpo e nella piazza alberata gli uccelli ripresero a cinguettare tra le fronde.

«Molto probabilmente è una registrazione» disse A. Bettik.

«Ora controllo» replicai. Riposi il binocolo e seguii un sentiero di pietrisco negli ampi prati e fra le palme giallastre, fino all’ingresso della moschea. Attraversai una corte interna e mi soffermai davanti all’entrata della moschea vera e propria. Scorgevo l’interno, disseminato di centinaia di tappetini di preghiera. Eleganti colonne sostenevano raffinati archi di pietra screziata e nella parete più lontana una magnifica arcata incorniciava una nicchia semicircolare. A destra di quella nicchia c’era una scalinata protetta da una ringhiera di pietra meravigliosamente scolpita, che aveva in cima una piattaforma dal baldacchino di pietra. Prima d’entrare, descrissi a A. Bettik l’interno della moschea.

«La nicchia è il mirhab» disse l’androide. «Riservato al conduttore della preghiera, l’imam. La balconata alla destra della nicchia è il minbar, il pulpito. C’è qualcuno?»

«No» risposi. Vedevo la polvere rossastra sui tappetini di preghiera e sui gradini.

«Allora non c’è dubbio, la chiamata alla preghiera è una registrazione a tempo.»

Provai l’impulso di entrare in quel grande edificio di pietra, ma l’impulso fu cancellato dalla riluttanza a profanare un luogo sacro ad altri. Avevo provato la stessa sensazione da bambino, nella cattedrale cattolica della Punta del Becco, e da adulto, quando un amico della Guardia Nazionale voleva condurmi in uno degli ultimi templi gnostici Zen di Hyperion. Da ragazzo avevo capito che sarei sempre stato un estraneo, nei luoghi sacri: non ne avrei mai avuto uno mio personale, non mi sarei mai sentito a mio agio in quello di altri. Non entrai.

Tornai indietro per le vie sempre più fresche e più buie e trovai un viale fiancheggiato di palme, in un’attraente zona della città. Carretti a mano esponevano cibi e giocattoli in vendita. Mi fermai accanto a un carretto per la vendita di ciambelle fritte e annusai uno di quei dolci ad anello grandi come un braccialetto. Era andato a male da qualche giorno, non da settimane o da mesi.

Il viale sbucava sul lungofiume; girai a sinistra e attraversai la spianata per tornare nella via che mi avrebbe riportato alla clinica. Di tanto in tanto chiamavo A. Bettik per controllo. Aenea era sempre profondamente addormentata.

Le stelle erano rese fioche dalla polvere nell’atmosfera e la notte calava sulla città. Solo in pochi edifici del centro c’era luce (chi aveva portato via la popolazione, aveva di sicuro agito di giorno), ma imponenti lampioni a gas, di tipo antico, correvano lungo la spianata e la illuminavano. Se non fosse stato per uno di quei lampioni posto alla fine della via verso il pontile dove avevamo ormeggiato la zattera, probabilmente sarei tornato alla clinica senza vedere niente. Invece il lampione mi consentì di scorgere una figura, da più d’un centinaio di metri di distanza.

133
{"b":"121395","o":1}