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— Eraclito era Michelangelo — dice monsignor Oddi. — Ed Euclide, lì… lo vede?… era Bramante. Su, si avvicini.

De Soya quasi non ha il coraggio di mettere piede sul tappeto simile a uno splendido arazzo. Ha l’impressione che gli affreschi, le statue, le dorature e le alte finestre della sala gli turbinino intorno.

— Vede quelle lettere sul colletto di Bramante? Su, si sporga più vicino. Riesce a leggerle, figliolo?

— R-U-S-M — legge de Soya.

— Sì, sì — ridacchia monsignor Oddi. — Raphael Urbinas Sua Manu. Su, su, figliolo, traduca per un povero vecchio. Nell’ultima settimana ha fatto un buon ripasso di latino, mi pare.

— Raffaello d’Urbino, di propria mano — traduce de Soya. Mormora tra sé, più che rivolgersi all’alto prelato.

— Sì. Andiamo. Prenderemo l’ascensore papale per scendere agli appartamenti. Non dobbiamo far aspettare il Segretario.

Gli appartamenti Borgia occupano gran parte del pianterreno di quell’ala del palazzo. Per entrare, de Soya e monsignor Oddi passano dalla piccola cappella di Nicola V e il Padre Capitano pensa di non avere mai visto opera d’uomo più bella di quel piccolo locale. Gli affreschi sono stati dipinti dal Beato Angelico, tra il 1447 e il 1449 e sono l’essenza della semplicità, l’incarnazione della purezza.

Al di là della cappella, le sale degli appartamenti Borgia diventano più buie e più sinistre, proprio come la concomitante storia della Chiesa sotto i Papi Borgia. Ma giunto alla Sala IV, lo studio di Papa Alessandro, dedito alle scienze e alle arti liberali, de Soya comincia ad apprezzare il potere dei ricchi colori, le stravaganti applicazioni della foglia d’oro, i sontuosi usi dello stucco. La Sala V esplora, mediante affreschi e statue, la vita dei santi, tuttavia possiede un’atmosfera stilizzata, inumana, che de Soya associa agli antichi quadri dell’arte egiziana della Vecchia Terra. La Sala VI, la stanza da pranzo del Papa secondo monsignor Oddi, esplora i misteri della fede, con un’esplosione di colori e di figure che letteralmente mozzano il fiato al Padre Capitano.

Monsignor Oddi si ferma davanti a un enorme affresco raffigurante la Risurrezione di Cristo e indica con due dita una figura secondaria la cui intensa pietà è ancora percettibile dopo tanti secoli e sotto gli olii sbiaditi. — Papa Alessandro VI — dice piano. — Il secondo dei Papi Borgia. — Muove la mano in un gesto quasi indifferente e indica due figure in piedi accanto al Papa nell’affresco densamente popolato: tutt’e due hanno la luce e l’espressione riservate ai santi. — Cesare Borgia, il figlio bastardo di Papa Alessandro. L’uomo accanto a lui è il fratello di Cesare… fatto assassinare da quest’ultimo. La figlia di Papa Alessandro VI, Lucrezia, era nella Sala V… forse le è sfuggita… la santa vergine Caterina d’Alessandria.

De Soya può solo guardare con tanto d’occhi. Sul soffitto vede il disegno che compare in ciascuna di quelle sale, il toro e la corona, gli emblemi dei Borgia.

— Tutti questi affreschi sono opera del Pinturicchio — dice monsignor Oddi, riprendendo a camminare. — In realtà si chiamava Bernardino di Betto ed era completamente pazzo. Forse un servo delle tenebre. — Si sofferma per dare di nuovo un’occhiata alla sala, mentre le Guardie Svizzere scattano sull’attenti. — Ma di sicuro un genio — soggiunge piano. — Venga. È l’ora del nostro appuntamento.

Il cardinale Lourdusamy attende, dietro una lunga e bassa scrivania, nella Sala VI, la Sala dei Pontefici. Non si alza, ma si sposta di lato sulla poltrona, mentre il Padre Capitano de Soya è annunciato e ha il permesso di avvicinarsi. De Soya piega il ginocchio e bacia l’anello al cardinale. Lourdusamy gli dà un colpetto sulla testa e con un gesto bandisce ogni altra formalità. — Prenda quella sedia, figliolo — dice. — Si metta comodo. Le assicuro che quella poltroncina è molto più comoda di questa sorta di trono che hanno trovato per me.

De Soya ha quasi dimenticato la forza della voce del cardinale Lourdusamy: un basso brontolio che pare sorgere dalla terra, oltre che dal massiccio corpo del prelato. Il cardinale Lourdusamy è gigantesco, una grande massa di seta rossa, di lino bianco e di velluto cremisi, una montagna umana culminante nella grossa testa sopra una serie di menti; ha bocca piccola, occhi piccini e vivaci, cranio quasi calvo messo in risalto dallo zucchetto cremisi.

— Federico — tuona il cardinale Lourdusamy — sono davvero compiaciuto e deliziato che lei abbia superato senza risentirne tutte quelle morti e quelle vicissitudini. La vedo in ottime condizioni, figliolo. Stanco, ma in forma.

— Grazie, Eccellenza — dice de Soya. Monsignor Oddi si è accomodato alla sinistra del prete-capitano, un po’ più discosto dalla scrivania del cardinale.

— E mi dicono che ieri lei è comparso davanti al tribunale del Sant’Uffizio — tuona il cardinale Lourdusamy, guardando negli occhi de Soya e trapassandolo con lo sguardo.

— Sì, Eccellenza.

— Niente schiacciapollici, mi auguro. Niente vergini di Norimberga o ferri arroventati. Oppure l’hanno messa sulla ruota? — La sua risatina pare echeggiare nell’ampio petto.

— No, Eccellenza — dice de Soya. Riesce a trovare un sorriso.

— Bene, bene — dice il cardinale. La luce di un tubo al neon, dieci metri più in alto, gli fa sfavillare l’anello. Il cardinale si sporge e sorride. — Quando Sua Santità ordinò al Sant’Uffizio di riprendere l’antico nome, Inquisizione, alcuni miscredenti pensarono che nella Chiesa fossero tornati i giorni di follia e di terrore. Ma ora sanno come stanno le cose, Federico. L’unico potere del Sant’Uffizio consiste nel consigliare gli Ordini della Chiesa, la sua autorità punitiva consiste nel raccomandare la scomunica.

De Soya si umetta le labbra. — Ma quella è una punizione terribile, Eccellenza.

— Sì — riconosce il cardinale Lourdusamy e non usa più un tono scherzoso. — Terribile. Ma non è cosa di cui lei debba preoccuparsi, figliolo. L’incidente ormai è passato. Il suo nome e la sua reputazione sono completamente salvi dal biasimo. Il rapporto che il tribunale invierà a Sua Santità la proscioglierà da qualsiasi colpa più grave di… come dire… di una certa insensibilità per i sentimenti di un certo vescovo di provincia che ha nella Curia sufficienti amici per pretendere quell’indagine conoscitiva.

De Soya ancora non osa tirare un sospiro di sollievo. — Il vescovo Melandriano è un ladro, Eccellenza.

I vivaci occhietti del cardinale Lourdusamy si spostano per un attimo verso monsignor Oddi, poi tornano a fissare in viso il prete-capitano. — Sì, sì, Federico — dice il Segretario di Stato. — Lo sappiamo. Ne eravamo al corrente già da qualche tempo. Il buon vescovo, nella sua remota città galleggiante su quel mondo d’acqua, avrà il suo momento davanti ai cardinali del Sant’Uffizio, stia tranquillo. E stia pure tranquillo che per lui le raccomandazioni non saranno altrettanto indulgenti. — Con uno scricchiolio di legno antico si appoggia all’alto schienale. — Ma dobbiamo parlare d’altre cose, figliolo. È pronto a riprendere la sua missione?

— Sì, Eccellenza — risponde de Soya. Si sorprende per l’immediatezza e la sincerità della risposta. Fino a quel momento ha ritenuto meglio che sia stato posto termine a quella parte della sua vita e del suo servizio.

Il cardinale Lourdusamy diventa più serio. Pare serrare con forza le mascelle. — Magnifico — tuona. — Ora, mi è stato detto che uno dei suoi uomini è morto durante la spedizione a Hebron.

— Un incidente nella fase di risurrezione, Eccellenza.

Il cardinale Lourdusamy scuote la testa. — Terribile. Terribile.

— Il lanciere Rettig — soggiunge il Padre Capitano de Soya: sente il bisogno che sia fatto il nome di quell’uomo. — Era un buon soldato.

Negli occhi del cardinale c’è un luccichio come di lacrime. Lourdusamy guarda in viso de Soya e dice: — Prowederemo ai suoi genitori e a sua sorella. Un fratello del lanciere Rettig raggiunse il grado di prete-comandante su Bressia. Lo sapeva, figliolo?

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