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Nel frattempo avevo escogitato un piano perfetto: creare un diversivo (per questo avevo portato i detonatori e il plastico… non molto, ma sufficiente a provocare almeno un incendio), rubare una libellula e poi varcare con quella il portale, se eravamo inseguiti, oppure usarla per trainare a grande velocità la zattera.

Era un buon piano, a parte un difetto: non sapevo pilotare un tòttero. Eventualità che non si era mai presentata, negli olodrammi da me visti nei teatri di Port Romance o nelle sale di ricreazione della Guardia Nazionale: gli eroi sapevano pilotare qualsiasi velivolo riuscissero a rubare… skimmer, EM, tòtteri, còtteri, aeronavi rigide, navi spaziali. Evidentemente avevo saltato l’Addestramento Basilare per Eroi; se fossi riuscito a entrare in uno di quegli affari, probabilmente all’arrivo dei soldati della Pax sarei stato ancora lì a rosicchiarmi le unghie e a fissare i comandi. Ai tempi dell’Egemonia, l’Eroe trovava di sicuro meno difficoltà… le macchine erano più intelligenti e compensavano così la sua stupidità. In pratica (ma mi sarebbe dispiaciuto confessarlo ai miei compagni di viaggio) non erano molti, i veicoli che sapevo guidare. Una chiatta. Un semplice camion, se del tipo in dotazione alla Guardia Nazionale di Hyperion. In quanto a pilotare velivoli… be’, ero stato felice, quando avevo visto che la nave spaziale non aveva sala comando.

Mi scossi da queste fantasticherie sulle mie manchevolezze come eroe e mi concentrai per superare le ultime centinaia di metri che mi separavano dalla piattaforma. Ora vedevo con chiarezza le luci: fari per velivoli accanto ai ponti d’atterraggio, una luce verde lampeggiante su ciascuno dei bacini per i pescherecci, finestre illuminate. Moltissime finestre. Decisi d’atterrare nella zona più buia della piattaforma, proprio sotto la torre radar del lato est, e spinsi il tappeto in un lungo, lento arco a filo d’onda, per avvicinarmi da quella direzione. Mi guardai indietro e quasi m’aspettai di vedere la zattera che s’avvicinava, ma quella era sempre invisibile.

"Speriamo che sia invisibile anche a loro" pensai. Ora udivo voci e risate: voci maschili, risate profonde. Pareva che lì ci fosse un gruppo dei miei clienti cacciatori, avvinazzati e allegri. Ma anche degli idioti con cui avevo fatto servizio nella Guardia Nazionale. Mi concentrai per tenere basso e asciutto il tappeto e per intrufolarmi sulla piattaforma.

«Sono quasi arrivato» subvocalizzai nel trasmettitore.

«Bene» mi bisbigliò all’orecchio Aenea. Avevamo stabilito che avrebbe solo risposto alle chiamate, a meno che non si verificasse un’emergenza dalla loro parte.

Sotto la piattaforma principale, da quel lato, vidi un labirinto di travi, di strutture longitudinali, di ponti secondari e di passerelle. A differenza delle scale ben illuminate sui lati nord e ovest, queste erano buie… passerelle d’ispezione, forse. Per far posare il tappeto scelsi la più bassa e la più buia. Spensi i fili di volo, tagliai con un colpo di coltello la fune che avevo portato con me, arrotolai il tappeto e lo legai nel punto di unione di due travi. Mentre rimettevo nel fodero il coltello e tiravo il giubbotto per coprirlo, immaginai all’improvviso di dover pugnalare qualcuno. Provai un brivido. A parte l’incidente dovuto all’attacco di Herrig, non avevo mai ucciso nessuno in uno scontro corpo a corpo. Pregai Iddio che la cosa non si ripetesse mai più.

Salii i gradini, provocando qualche cigolio, e mi augurai che il rumore fosse coperto dallo sciacquio delle onde contro i piloni e dalle risate. Percorsi due rampe, trovai una scala a pioli e la seguii fino a un portello. La botola non era chiusa a catenaccio. La sollevai lentamente, quasi aspettandomi di far cadere sulle chiappe una guardia armata.

Alzai piano piano la testa e vidi che mi trovavo nel ponte di volo sul lato della torre rivolto al mare. Dieci metri più in alto, l’antenna radar girava e oscurava una fetta di Via Lattea a ogni rotazione.

Mi tirai sul ponte, dominai l’impulso di camminare in punta di piedi e andai all’angolo della torre. Due enormi skimmer erano legati al ponte di volo, ma parevano bui e vuoti. Sul ponte inferiore vedevo i riflessi delle stelle sulle ali multiple dei tòtteri. La luce della nostra galassia brillava sulle buie bolle d’osservazione. Sentivo un formicolio fra le scapole, perché avevo l’impressione d’essere osservato, mentre passavo sul ponte superiore, applicavo un panetto d’esplosivo nel ventre dello skimmer più vicino, sistemavo un detonatore che potevo azionare con un’appropriata frequenza della mia ricetrasmittente, scendevo sul più vicino ponte di tòtteri e ripetevo l’operazione. Ero sicuro d’essere osservato da una delle finestre illuminate di quel lato, ma non ci furono allarmi. Con la massima indifferenza possibile, risalii senza far rumore la passerella e scrutai dall’angolo della torre.

Un’altra scala collegava il modulo della torre a uno dei sottostanti livelli principali. Lì le finestre erano molto luminose, coperte solo da schermature, non dalle imposte antiburrasca. Udii altre risate, qualche canto, rumori di pentole e padelle.

Inspirai a fondo, scesi la scala e attraversai il ponte, seguendo una passerella diversa per tenermi lontano dalla porta. Quando mi chinai per passare sotto le finestre illuminate, cercai di trattenere il fiato e di far rallentare i battiti del cuore. Se qualcuno fosse uscito da quella porta, si sarebbe trovato fra me e il nascondiglio del tappeto hawking. Toccai il calcio della .45 sotto il giubbotto e il risvolto della fondina, cercando di farmi venire pensieri coraggiosi. Mi venne solo il desiderio di tornare sulla zattera. Avevo sistemato gli esplosivi per creare un diversivo… cos’altro volevo? Non si trattava solo di curiosità, capii: se quelli non erano soldati della Pax, non volevo far scoppiare il plastico. I ribelli che mi ero arruolato per combattere nei ghiacciai dell’Artiglio usavano di preferenza bombe: bombe nei villaggi, bombe nelle caserme della Guardia Nazionale, pani d’esplosivo nei gatti delle nevi e in piccole imbarcazioni destinate tanto ai civili quanto ai militari. L’avevo sempre ritenuta una scelta detestabile, da vigliacchi. Le bombe non fanno discriminazioni, uccidono l’innocente e il soldato nemico. Era da sciocchi, lo sapevo, fare i moralisti a questo modo; mi auguravo che le mie piccole cariche non facessero altro che incendiare un velivolo deserto, tuttavia non le avrei fatte esplodere, se non fosse stato assolutamente indispensabile. Quegli uomini… e probabilmente donne e forse bambini… a noi non avevano fatto niente.

Con una lentezza dolorosa, assurda, sollevai la testa e scrutai dalla finestra più vicina. Diedi solo una rapida occhiata e abbassai di nuovo la testa. I rumori di tegami e padelle provenivano da una zona cucina ben illuminata… dalla cambusa, mi corressi, poiché quella era una nave, più o meno. Comunque là dentro c’erano cinque o sei persone, tutti maschi, tutti in età militare ma non in uniforme, a parte magliette e grembiuli, occupati a vuotare, impilare e lavare piatti. Ero giunto tardi per la cena.

Tenendomi contro la parete, percorsi piegato in due la passerella, scesi un’altra scala e mi fermai davanti a una fila di finestre più lunga. Lì, nascosto nell’ombra dell’angolo formato da due moduli, da alcune finestre lungo la parete rivolta a ovest potevo vedere l’interno senza dovermi accostare ai vetri. Si trattava di una sala mensa… o di una sorta di stanza da pranzo. Una trentina di persone, tutti uomini, sedeva ai tavoli, davanti a tazze di caffè. Alcuni fumavano sigarette di tabacco ricombinante. Almeno uno beveva whisky… o comunque un liquido color ambra, preso da una bottiglia. In quel momento non ne avrei rifiutato un goccio, qualsiasi cosa fosse.

Molti uomini erano in cachi, ma non sapevo se si trattava di una uniforme locale o solo dell’abbigliamento tradizionale di chi si dedica alla pesca sportiva. Non vidi uniformi della Pax… decisamente una buona cosa. Forse quella era solo una semplice piattaforma per la pesca, un albergo per ricchi stronzi d’altri pianeti che se ne fregavano di pagare un anno di debito temporale (in realtà, di farlo pagare agli amici e ai familiari) per l’emozione di uccidere qualche grossa ed esotica preda. Diamine, forse ne conoscevo addirittura qualcuno: pescatore adesso, cacciatore d’anatre quando aveva visitato Hyperion. Non mi venne voglia d’entrare per scoprirlo.

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