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Accentuai di sicuro la ruga di perplessità. — Hai visto tutto questo? — replicai, stupito. — Quale quota hai raggiunto?

— Il tappeto non ha altimetro — rispose A. Bettik. — Ma a giudicare dalla visibile curvatura del pianeta e dal colore più scuro del cielo, penso d’essere salito a circa cento chilometri.

— Avevi una tuta spaziale? — domandai. A quell’altitudine il sangue gli sarebbe bollito nelle vene e i polmoni gli sarebbero esplosi per la decompressione. — Un respiratore? — Diedi un’occhiata, ma il nostro modesto mucchio di materiale non comprendeva niente del genere.

— No — rispose l’androide, girandosi per alzare una cassetta. — Ho solo trattenuto il fiato.

Scossi la testa e andai a tagliare qualche albero: la solitudine e l’esercizio fisico m’avrebbero fatto bene.

Terminammo la zattera solo a sera, ma avrei lavorato tutta la notte, se A. Bettik non avesse fatto a turno con me nel tagliare alberi. Il prodotto finale non era elegante, ma galleggiava. La nostra piccola zattera era lunga circa sei metri e larga quattro: nella parte posteriore aveva un lungo palo di governo, rozzamente sbozzato a forma di timone, sorretto da un sostegno biforcuto; proprio davanti al palo di governo c’era una sorta di pedana dove Aenea sagomò una tenda a una falda con aperture verso prua e poppa; sulle fiancate c’erano due rozzi scalmi per le lunghe pertiche che fungevano da remi e che sarebbero rimaste lungo il bordo a meno che non fossero necessarie per procedere in acque morte o per manovre d’emergenza nelle rapide. Avevo temuto che i fusti di quelle piante simili a felci s’inzuppassero d’acqua e si rivelassero inadatti per una zattera, ma un doppio strato di tronchi disposti a nido d’ape, tenuti insieme da corda da scalatore e imbullonati nei punti strategici, galleggiava molto bene e teneva il pianale della zattera a una quindicina di centimetri dall’acqua.

Aenea era rimasta affascinata dalla microtenda e devo ammettere che la sagomava con un’abilità e un’efficienza superiori alle mie, anche se io avevo anni di pratica. La nostra tenda a una falda era accessibile dal posto di guida al timone, aveva sul davanti un riparo dal sole e dalla pioggia, che però non ostacolava la visuale, e dei tendoni ai lati per tenere all’asciutto le scatole di materiali di scorta. Aenea aveva già disteso in vari angoli i materassini di schiuma e i sacchi a pelo; la zona soggiorno al centro, da dove si aveva la vista migliore nella direzione di viaggio, adesso vantava una pietra levigata larga un metro, che fungeva da focolare, e l’attrezzatura da cucina e il termocubo; una delle torce, regolata nel modo lanterna, pendeva dal gancio centrale. Devo ammettere che nell’insieme la tenda dava l’impressione di un cantuccio accogliente.

Tuttavia Aenea non passò il pomeriggio solo a preparare cantucci accoglienti. M’ero aspettato, lo confesso, che se ne stesse da parte a guardare noi adulti sudare nel lavoro pesante (dopo un’ora mi ero messo a torso nudo per il gran caldo) e invece lei ci diede quasi subito una mano, trascinando al posto di lavoro i tronchi abbattuti, legandoli, piantando chiodi, applicando bulloni e perni, insomma aiutandoci in vari modi. Mi spiegò per quale motivo era poco efficiente il timone da me costruito alla buona secondo il sistema standard che m’avevano insegnato: abbassando la base del treppiede di sostegno e sistemandola a maggiore distanza, potevo muovere meglio e con maggiore efficacia il lungo palo di governo. Due volte mi mostrò altri sistemi di legare i supporti a croce nella parte inferiore della zattera, in modo che fossero più tesi e più resistenti. Quando ci occorreva un tronco sagomato, se ne occupava Aenea, usando il machete: A. Bettik e io potevamo solo tenerci da parte per non essere colpiti dalle schegge.

Eppure, malgrado il duro lavoro di tutt’e tre, prima che la zattera fosse terminata e caricata, era quasi il tramonto.

— Possiamo accamparci qui stanotte e partire domattina presto — dissi. Mentre facevo la proposta, mi resi conto di non essere entusiasta. Anche agli altri due l’idea non garbava. Così salimmo a bordo. Allontanai da riva la zattera, servendomi della lunga pertica scelta come principale fonte di locomozione quando non sarebbe bastata la corrente del fiume. A. Bettik si mise al timone e Aenea andò sul lato anteriore della zattera, per individuare eventuali banchi di sabbia o scogli a pelo d’acqua.

Nel primo paio d’ore il viaggio fu quasi magico. Dopo il caldo afoso della giungla e le fatiche della giornata, pareva d’essere in paradiso, sulla zattera in pigro movimento, con l’unica preoccupazione di dare di tanto in tanto una spinta contro il fondo fangoso mentre guardavamo scivolare via la muraglia d’alberi sempre più buia. Il sole tramontò quasi esattamente alle nostre spalle e per qualche minuto il fiume divenne rosso come lava fusa e le parti inferiori delle gimnosperme parvero in fiamme per il riflesso. Poi il grigiore si mutò in tenebra, ma riuscimmo a dare solo una fuggevole occhiata al cielo notturno, perché, come nella notte precedente, da est sopraggiunse una densa nuvolaglia.

— Chissà se la nave è riuscita a fare il punto — disse Aenea.

— Domandiamoglielo — proposi.

La nave non ci era riuscita. «Ho solo stabilito che non ci troviamo né su Hyperion né su Vettore Rinascimento» disse la vocina proveniente dal braccialetto comlog.

— Be’, è già un sollievo — replicai. — Altre novità?

«Mi sono spostata sul fondo del fiume» riferì la nave. «Sto abbastanza comodamente e mi preparo a…»

All’improvviso i fulmini variegati striarono l’orizzonte, a nord e a ovest; il vento sferzò di traverso il fiume, con tale violenza che fummo costretti a fissare in fretta tutti i materiali in modo che non fossero spazzati via; la zattera cominciò a spostarsi verso la riva sud, sulle creste d’onda, e il comlog sputò solo scariche. Lo spensi e mi concentrai sulla pertica, mentre A. Bettik riprendeva il timone. Per alcuni minuti pensai che la zattera si sarebbe sfasciata sotto le alte onde e il vento ruggente; la prua si alzava e si abbassava e l’unica luce proveniva dalle esplosioni di fulmini rosso magenta e scarlatto. Quella notte c’erano anche i tuoni, grandi ondate di rumore, come se qualcuno facesse rotolare giù per le scale verso di noi giganteschi bidoni di ferro, e i fulmini dell’aurora boreale laceravano il cielo, anziché danzarvi come nella notte precedente. Tutti e tre impietrimmo per un secondo, quando uno di quei fulmini color rosso magenta colpì una gimnosperma sulla riva nord e la incendiò all’istante, con un’esplosione di scintille colorate. In qualità di ex marinaio fluviale, imprecai contro la mia stupidità: ci trovavamo al centro di un ampio fiume (il Teti era di nuovo largo quasi un chilometro) e non avevamo neppure un’asta parafulmine né materassini di salvataggio. Ce ne stavamo accovacciati e facevamo smorfie quando i fulmini multicolori colpivano le rive o incendiavano l’orizzonte davanti a noi.

A un tratto si mise a piovere e le scariche di fulmini si attenuarono. Corremmo sotto la tenda: Aenea e A. Bettik si rannicchiarono nel vano anteriore, sempre attenti a scorgere in tempo banchi di sabbia o tronchi galleggianti, e io rimasi nella parte posteriore, dove Aenea aveva accomodato un riparo a chi fosse al timone.

Anche sul Kans pioveva a dirotto e di frequente (ricordo quando, rannicchiato nel castello di prua di una vecchia chiatta che imbarcava acqua, mi domandavo se la maledetta bagnarola non sarebbe colata a picco solo per il peso della pioggia), ma non avevo mai visto un diluvio come quello.

Per un attimo pensai che eravamo giunti a un’altra cascata, molto più larga della precedente, stavolta, e che senza volerlo eravamo finiti sotto il torrente d’acqua… ma navigavamo ancora a valle e non c’erano cascate che precipitassero su di noi, solo la terribile violenza della peggiore tempesta che avessi mai provato.

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