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Mi sono sempre divertito a smontare l’accampamento, addirittura più che a montarlo. Mi piace, penso, la bellezza di riporre ogni cosa al suo posto.

— Cosa dimentichiamo? — dissi agli altri due, mentre davamo ancora un’occhiata ai vari mucchi.

«Me» disse la nave, attraverso il bracciale comlog. Il tono era un po’ lamentoso.

Aenea si avvicinò alla nave arenata e toccò lo scafo. — Come va? — domandò.

«Ho iniziato le riparazioni, signorina Aenea. La ringrazio per l’interessamento.»

— Prevedi ancora sei mesi per ultimare le riparazioni? — domandai. Le ultime nuvole si disperdevano e il cielo era di nuovo azzurro. Le fronde, verdi e bianche, si muovevano contro l’azzurro.

«Circa sei mesi standard» confermò la nave. «Parlo ovviamente delle mie condizioni interne ed esterne. Non possiedo i micromanipolatori necessari per riparare oggetti come le aerociclette.»

— Non importa — disse Aenea. — Le lasciamo tutte qui. Le ripareremo quando ci rivedremo.

«Quando sarà?» La voce, provenendo dal comlog, parve più sottile del normale.

Aenea guardò A. Bettik e me. Né io né l’androide aprimmo bocca. Alla fine Aenea disse: — Avremo ancora bisogno dei tuoi servigi, Nave. Puoi restare nascosta qui per mesi… o anni… mentre ripari i danni e ci aspetti?

«Sì» rispose la nave. «Il fondo del fiume andrebbe bene?»

Guardai la grande massa grigia della nave che sporgeva dall’acqua. Lì il fiume era largo e probabilmente profondo, ma il pensiero della nave ferita che si ritirava nel fiume mi faceva un certo effetto. — Non… non avrai infiltrazioni d’acqua? — dissi.

«Signor Endymion» replicò la nave, in quel tono che mi faceva pensare a un suo comportamento altezzoso «sono un veicolo interstellare in grado di penetrare nelle nebulose e di stare in tutta tranquillità nel guscio esterno di una gigante rossa. Ben difficilmente in me ci saranno… come ha detto lei… infiltrazioni per il semplice fatto di restare immersa in H2O per qualche anno.»

— Scusami — dissi. E poi, incapace di sopportare che fosse la nave, col suo rimbrotto, ad avere l’ultima parola, soggiunsi: — Ricorda di chiudere il portello stagno, prima di andare sott’acqua.

La nave non fece commenti.

— Quando torneremo a prenderti — disse Aenea — potremo chiamarti?

«Usate le bande del comlog o la 90,1 sulla banda radio generale» disse la nave. «Manterrò sulla superficie dell’acqua un’antenna frusta-cimice per captare la vostra chiamata.»

— Antenna frusta-cimice — mormorò A. Bettik. — Che bella frase.

«Purtroppo non ricordo da dove deriva quel termine» disse la nave. «La mia memoria non è più quella d’una volta.»

— Non importa — la consolò Aenea, battendo qualche colpetto sullo scafo. — Ci sei stata molto utile. Ora pensa a rimetterti a posto. Vogliamo vederti in gran forma, al nostro ritorno.

«Certo, signorina Aenea. Mi terrò in contatto e seguirò i vostri movimenti finché non varcherete il secondo portale.»

A. Bettik e Aenea si sedettero sul tappeto hawking, occupando lo spazio lasciato libero dagli zaini e dalle ultime scatole di materiali. Mi agganciai l’ingombrante cintura di volo. Così dovevo portare il mio zaino tenendolo contro il petto, sospeso con una sola cinghia alla spalla, mentre reggevo nella mano libera la carabina, ma andò tutto bene. Sapevo come guidare la cintura di volo solo dalla lettura dei manuali (su Hyperion le cinture EM non funzionano), ma i comandi erano semplici e intuitivi. L’indicatore di carica segnava il massimo, perciò quel breve balzo non comportava il rischio di cadere nel fiume.

Il tappeto era già librato una decina di metri sopra il fiume. Premetti il regolatore stretto in pugno, balzai in aria, rischiai di fare la barba a una gimnosperma, trovai l’assetto e volai per tenermi accanto al tappeto. Penzolare dall’imbracatura imbottita non era comodo come stare seduto su un tappeto hawking, ma la sensazione di volare era perfino più intensa. Con il regolatore sempre stretto nel pugno, alzai il pollice nel segnale "tutto a posto" e iniziammo il volo lungo il fiume, verso il sole nascente.

Nel tratto fra la nave e la cascata non c’erano molte spiagge, ma sulla riva sud, alla base del dislivello, dove il fiume si allargava in una pigra pozza appena al di là delle rapide, c’era un buon posto; proprio lì A. Bettik aveva depositato le attrezzature da campeggio e il primo carico di materiali. Scaricammo le ultime cassette, assordati dal rumore della cascata. Preparai la scure ed esaminai le gimnosperme più vicine.

— Pensavo una cosa — disse A. Bettik, così piano che stentai a udirlo.

Mi fermai, ascia in spalla. Faceva molto caldo e già la camicia mi si appiccicava addosso.

— Il Teti era previsto per divertenti crociere — continuò A. Bettik. — Mi domandavo come i cabinati da diporto se la cavassero con quella. — Puntò il dito in direzione della cascata.

— Stavo pensando la stessa cosa — disse Aenea. — A quel tempo c’erano chiatte a levitazione, ma non tutti coloro che percorrevano il Teti ne avevano una. Sarebbe stato imbarazzante fare una romantica gita in barca e trovarsi sulle cascate.

Guardai la spruzzaglia punteggiata d’arcobaleni e fui assalito da un dubbio: forse non ero poi tanto intelligente come spesso mi ritenevo. Il problema delle rapide non mi aveva neppure sfiorato. — Da quasi tre secoli nessuno usa il Teti — dissi. — Forse le cascate sono recenti.

— Forse — disse A. Bettik. — Però ne dubito. Quelle cascate sembrano prodotte da dislivelli tettonici che corrono per molti chilometri a nord e a sud nella giungla… vede quella differenza di quota? E l’acqua ha eroso la roccia per moltissimo tempo. Ha notato le dimensioni dei macigni nelle rapide? Direi che le cascate esistono da quando esiste il fiume.

— La tua guida del Teti non ne parla?

— No. — L’androide mi porse il libro. Lo prese Aenea.

— Forse non siamo sul Teti — dissi. L’androide e Aenea mi fissarono. — La nave non ha potuto stabilire dove ci troviamo — continuai. — E se questo mondo non facesse parte del percorso originale del Teti?

Aenea annuì. — L’avevo pensato. I portali sono uguali a quelli che si vedono lungo i resti del Teti attuale, ma chi può dire se il TecnoNucleo non avesse altri portali… altri fiumi collegati mediante teleporter?

Abbassai la scure e mi appoggiai al manico. — In questo caso siamo nei guai — dissi. — Tu non troverai mai il tuo architetto e noi non troveremo mai la via del ritorno alla nave e a casa.

Aenea sorrise. — È troppo presto per pensarci. Sono passati davvero tre secoli! Forse nel frattempo il fiume si è aperto un altro letto. O forse c’è un canale con delle chiuse, che non abbiamo visto perché coperto dalla giungla. Non dobbiamo preoccuparcene, al momento. Dobbiamo solo scendere a valle e vedere se c’è un portale.

Alzai il dito. — Un’altra cosa — dissi, sentendomi un po’ più intelligente di poco prima. — Se ci prendiamo il mal di pancia di costruire qui una zattera e poi troviamo un’altra cascata fra noi e il portale? O altre dieci? Ieri notte non abbiamo scorto l’arcata del teleporter, perciò non sappiamo quanto sia distante.

— L’avevo pensato — disse Aenea.

Tamburellai sul manico della scure. Se la bambina avesse detto ancora una volta quelle tre parole, avrei preso in seria considerazione l’idea di usare su di lei l’attrezzo.

— La signorina Aenea mi ha chiesto di fare una ricognizione — disse A. Bettik. — Ho provveduto durante il trasporto dell’ultimo carico.

Corrugai la fronte. — Ricognizione? Non hai avuto il tempo di volare per centinaia di chilometri lungo il fiume!

— No — ammise l’androide — ma sono salito ad alta quota e ho usato il binocolo di riserva per esaminare il percorso. Pare che il fiume corra dritto per quasi duecento chilometri. Era difficile, certo, ma ho scorto un possibile teleporter, circa centotrenta chilometri più a valle. Non mi è parso di scorgere altre cascate né grossi ostacoli fra noi e l’arcata.

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