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Ciò che ricordo meglio di quella notte, a parte la paranoia galoppante e la terribile stanchezza, fu lo spettacolo di Aenea addormentata, con i capelli biondocastani sparsi sul bordo del sacco a pelo rosso, con il pugno contro la guancia come una bimbetta pronta a succhiarsi il pollice. Quella notte mi resi conto dell’importanza e della terribile difficoltà del compito che mi attendeva: tenere quella bambina al sicuro dagli spigoli affilati di un universo bizzarro e indifferente.

Proprio in quella notte estranea e sconvolta dalla tempesta, penso, capii per la prima volta che cosa si prova a essere padre.

Ci mettemmo in moto alle prime luci. Ricordo di quel mattino la mistura di stanchezza nelle ossa, di occhi irritati, di guance ruvide per la barba lunga, di schiena dolorante e di pura gioia, che di solito sentivo dopo la prima notte di campeggio. Aenea andò al fiume per lavarsi e devo riconoscere che pareva più fresca e più pulita di quanto non ci si sarebbe aspettato in simili circostanze.

A. Bettik aveva scaldato il caffè; ne bevvi una tazza, mentre guardavamo la nebbia del mattino salire a riccioli dal fiume. Aenea bevve acqua dalla bottiglia che si era portata dalla nave e facemmo colazione con le gallette di una razione da campo.

Quando ormai il sole risplendeva sul baldacchino della giungla e dissipava le nebbie che salivano dal fiume e dalla foresta, trasportammo a valle l’equipaggiamento, servendoci del tappeto hawking. La sera prima, la parte divertente era toccata a Aenea e a me, perciò lasciai che A. Bettik si occupasse del trasporto, mentre io prendevo dalla nave altri materiali e controllavo che ci fosse tutto il necessario.

I vestiti furono un guaio. Avevo messo nel mio bagaglio tutto ciò di cui potevo avere bisogno, ma la bambina aveva solo i vestiti che portava su Hyperion e nello zaino, più alcune camicie ricavate da quelle nel guardaroba del Console. Certo che il vecchio poeta, con più di 250 anni per fare piani sul salvataggio della bambina, avrebbe anche potuto pensare a prepararle qualche vestito! Aenea pareva contenta di ciò che aveva portato con sé, ma io mi preoccupavo che non sarebbe bastato, se avessimo incontrato freddo o pioggia.

In questo caso l’armadio AEV ci fu d’aiuto. Conteneva varie "fodere" studiate per le tute spaziali e la più piccola andava quasi a pennello a Aenea. La stoffa a micropori avrebbe tenuto la bambina al caldo e all’asciutto in qualsiasi condizione climatica che non fosse del peggior livello artico. Presi anche una tuta per l’androide e per me; pareva assurdo fare bagagli invernali nel calore tropicale di quella giornata, ma non si può mai sapere. Nell’armadio c’era anche un vecchio giubbotto da cacciatore appartenuto al Console: lungo per me, ma dotato di una quindicina di tasche, di ganci, anelli d’aggancio, compartimenti nascosti muniti di cerniera. Aenea mandò un gridolino, quando lo estrassi dal mucchio e lo indossai; da allora, lo portai quasi in continuazione.

Trovammo anche due sacche per campioni geologici, con cinghie a spalla, che costituivano ottimi zaini. Aenea ne prese una e v’infilò gli abiti di scorta e altre cianfrusaglie che ritenevamo utili.

Ero ancora convinto che nell’armadio dovesse esserci un canotto, ma frugai in tutti gli scompartimenti e non riuscii a trovarlo.

«Signor Endymion» disse la nave, quando spiegai a Aenea che cosa cercavo «ho un vago ricordo…»

Aenea e io ci fermammo per ascoltare. C’era qualcosa di strano, quasi di doloroso, nel tono della nave.

«Ho un vago ricordo del Console che prendeva il canotto gonfiabile… che vi saliva e mi salutava agitando il braccio.»

— Dove si trovava? — domandai. — Su quale mondo?

«Non so» rispose la nave, nello stesso tono perplesso, quasi dolente. «Forse non era affatto un mondo… ricordo stelle che brillavano sotto il fiume.»

— Sotto? — ripetei, stupito. Ero preoccupato per l’integrità mentale della nave a seguito del disastro.

«Sono ricordi frammentari» disse la nave, in tono più vivace. «Ma sono sicura che il Console si allontanò sul canotto. Un canotto di notevoli dimensioni, sufficiente per otto o dieci persone.»

— Magnifico! — commentai, chiudendo con un colpo il portello del compartimento. Aenea e io portammo a terra l’ultimo carico: ci eravamo organizzati con una scaletta metallica pieghevole agganciata al bordo della camera stagna, per cui salire e scendere non richiedeva la fatica del giorno prima.

Intanto A. Bettik aveva trasportato a valle della cascata le attrezzature da campeggio e le scatole di provviste ed era tornato; controllai che cosa restava da trasportare: lo zaino con le mie cose, lo zaino e la sacca di Aenea, i ricetrasmettitori extra e gli occhiali, alcune confezioni di cibo e, legati sopra il mio zaino, la carabina al plasma piegata in due e il machete trovato da A. Bettik il giorno precedente. Il lungo coltellaccio, anche nel fodero di cuoio, era pericoloso da portare, ma quei pochi minuti nella giungla, il giorno prima, mi avevano convinto che probabilmente ci sarebbe servito. Avevo anche recuperato una scure e un attrezzo ancora più compatto… una vanga pieghevole, quella che per millenni noi idioti che ci eravamo arruolati in fanteria chiamavamo ufficialmente "utensile da trincea". I nostri arnesi da taglio cominciavano a occupare spazio.

Avrei preferito lasciar perdere la scure e portare una fresa laser per abbattere gli alberi necessari a costruire la zattera (anche una vecchia motosega sarebbe stata preferibile), ma la mia torcia laser non era adatta a quel tipo di lavoro e l’armeria era stranamente priva di utensili da taglio. Per un momento meditai se fosse il caso di portare il vecchio fucile d’assalto della FORCE e usare la sua forza esplosiva per abbattere gli alberi, sezionandoli se necessario con scariche a impulso, ma lasciai perdere. Sarebbe stato un sistema troppo rumoroso, confusionario e impreciso. Avrei usato la scure e versato un po’ di sudore. Ma presi una cassetta di utensili fornita di martello, chiodi, cacciaviti, viti e perni (tutte cose che potevano servire per la costruzione di una zattera) nonché alcuni rotoli di plastallumin impermeabile, con cui pensavo di realizzare un rozzo ma efficace tavolato per la zattera. In cima alla cassetta degli utensili c’erano alcune centinaia di metri di corda da scalata, con guaina di nylon, in tre matasse separate. In una sacca impermeabile rossa avevo trovato alcuni razzi e un po’ di semplice plastico, del tipo usato da secoli per far saltare i ceppi e le rocce nei campi, nonché una decina di detonatori. Presi anche questi materiali, anche se non credevo che ci sarebbero serviti per abbattere alberi e costruire una zattera. Il mucchio di materiale in attesa di trasporto comprendeva anche due medipac e un depuratore d’acqua grosso come una bottiglia.

Avevo portato fuori la cintura di volo EM, ma era un marchingegno ingombrante, a causa dell’imbracatura e del gruppo energetico. Comunque l’appoggiai al mio zaino, pensando che forse ci sarebbe servita. Appoggiata al mio zaino c’era anche la doppietta, che A. Bettik non si era preso la briga di portare con sé durante il volo alla cascata. Accanto alla doppietta c’erano tre scatole di cartucce. Avevo insistito per prendere pure la pistola a fléchettes, anche se né l’androide né la bambina la volevano.

Alla cintura avevo la fondina con la .45 carica, un borsello con l’antiquata bussola magnetica trovata nell’armadio, gli occhiali notturni e il binocolo diurno, ripiegati, una borraccia d’acqua e due caricatori di riserva per la carabina al plasma. — E vengano pure i velorapaci — borbottai, facendo l’inventario.

— Cosa? — disse Aenea, alzando gli occhi.

— Oh, niente.

Quando A. Bettik toccò terra, Aenea aveva già riempito ordinatamente la sua nuova sacca. Aveva anche stipato nell’altra i pochi effetti personali dell’androide.

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