La soluzione più saggia sarebbe stata quella di tornare a riva e aspettare che il diluvio si esaurisse, ma non riuscivamo a vedere niente, a parte i fulmini colorati che esplodevano dietro la muraglia d’acqua, e non avevo idea di quanto distassero le rive né se sarebbe stato possibile portare a terra la zattera oppure ormeggiarla. Così legai il timone, tenendolo alto in modo che servisse solo a mantenere la poppa rivolta a monte, abbandonai il mio posto e mi rannicchiai vicino a Aenea e all’androide, mentre il cielo si spalancava e versava su di noi fiumi, laghi, oceani d’acqua.
A dimostrare l’abilità, o la fortuna, di Aenea nel sagomarla e nel fissarla, nemmeno una volta la tenda cominciò a piegarsi o a staccarsi dagli agganci alla zattera. Ho detto che mi rannicchiai accanto agli altri, ma in realtà tutt’e tre eravamo impegnatissimi a tenere ferme le casse che non erano state già legate, mentre la zattera s’impennava, sprofondava, ruotava, riprendeva la giusta direzione e poi ricominciava da capo. Non sapevamo da quale parte puntavamo, se la zattera era al sicuro al centro del fiume o si dirigeva contro i massi di una rapida o correva a tutta velocità contro un dirupo dove il fiume avrebbe curvato e noi no. A quel punto, non ce ne importava: il nostro scopo era quello di non perdere i materiali, di non farci scagliare fuori bordo e di tenere d’occhio gli altri per quanto possibile.
A un certo punto (con un braccio intorno alla pila di zaini e l’altra mano stretta sul colletto di Aenea che si sporgeva a recuperare una pentola diretta a tutta velocità fuori della tenda) guardai verso prua e m’accorsi che la zattera, a parte la piccola piattaforma dove ci trovavamo, era sott’acqua. Il vento sferzava creste d’onda che brillavano di rosso o di giallo vivo a seconda del colore dei fulmini che in quel momento squarciavano la cortina dell’aurora boreale. Ricordai una cosa che non avevo cercato nella nave: giubbotti di salvataggio… arnesi per galleggiare in acqua.
Tirai Aenea sotto la copertura della tenda che sbatteva al vento e gridai per superare il frastuono della tempesta: — Sai nuotare, quando non siamo a g-zero?
— Cosa? — gridò la bambina. Vidi le labbra formare la parola, ma in realtà non udii niente.
— Sai… nuotare?
A. Bettik, fra le casse che ballavano, drizzò la testa. L’acqua gli rusceliava dal cranio calvo e dal lungo naso. Gli occhi azzurri parevano viola, quando i fulmini si scatenavano.
Aenea scosse la testa, ma non ero sicuro se fosse una risposta negativa o un segno per indicare che non aveva capito. La tirai più vicino; il suo giubbotto, fradicio d’acqua, sbatacchiava come un lenzuolo bagnato in balia di raffiche di vento. — Sai… nuotare? — gridai a pieni polmoni. Lo sforzo mi lasciò senza fiato. Mossi freneticamente le mani imitando i movimenti di chi nuota. La zattera s’impennò e ci separò, poi ci spinse di nuovo vicino.
Scorsi nei suoi occhi un lampo di comprensione. La pioggia o la spruzzaglia le schizzavano dai lunghi capelli. Aenea sorrise e si sporse per gridarmi nell’orecchio.
— Grazie! Mi… piacerebbe… una nuotata… ma più tardi… forse.
A quel punto probabilmente finimmo in un gorgo, o forse il vento afferrò la tenda e la usò come vela per far ruotare la zattera sul proprio asse, fatto sta che la zattera girò, parve esitare, continuò nella rotazione. Tutt’e tre rinunciammo ad aggrapparci a qualcosa che non fosse la nostra vita e gli altri due: restammo rannicchiati al centro della piattaforma. Mi accorsi che Aenea gridava, una sorta di yu-huu di gioia; aprii bocca per urlarle di tacere e invece la imitai. Era piacevole, gridare contro la zattera vorticante e la tempesta e il diluvio, senza essere uditi, ma sentendo il proprio grido echeggiare nel cranio e nelle ossa insieme con il rombo dei tuoni. Mentre un fulmine cremisi illuminava l’intero fiume, lanciai un’occhiata alla mia destra: un masso sporgeva dall’acqua per almeno cinque metri e la zattera lo evitò e passò oltre, come una trottola che giri accanto a un carbone. Fui ancora più stupito nel vedere A. Bettik sulle ginocchia, testa gettata all’indietro, gridare yu-huu come noi a pieni polmoni.
La tempesta durò tutta la notte. Verso l’alba la pioggia diminuì e diventò un semplice acquazzone. I fulmini dell’aurora boreale e i tuoni dal rombo ultrasonico terminarono più o meno in quel momento, ma non posso esserne sicuro: come la mia giovane amica e come il mio amico androide, mi ero già addormentato e russavo.
Quando ci svegliammo il sole era alto; non c’era traccia di nuvole, l’ampio fiume scorreva calmo e lento, sulle rive la giungla sfilava come un lungo arazzo srotolato al nostro passaggio, il cielo era azzurro e mite.
Per un poco riuscimmo solo a stare seduti al sole, gomiti sulle ginocchia, con gli abiti ancora bagnati e gocciolanti. Non aprimmo bocca. Avevamo ancora negli occhi il maelstrom della notte, nella retina ci scoppiettava l’esplosione di colori.
Dopo un poco Aenea si alzò, malferma sulle gambe. Il pianale della zattera era bagnato, ma non sott’acqua. Un tronco del lato di destra si era staccato, al posto dei nodi c’erano alcune corde sfilacciate, ma tutto sommato l’imbarcazione era ancora idonea a tenere il mare… sì, il fiume. Fa lo stesso. Controllammo le attrezzature e facemmo l’inventario. La torcia appesa come lanterna era sparita e mancava anche una delle scatole più piccole di razioni, ma tutto il resto pareva a posto.
— Bene — disse Aenea — fate pure un giro, mentre preparo la colazione.
Regolò al massimo il termocubo, in un minuto ebbe un pentolino d’acqua bollente, preparò il tè per sé e versò il resto nella caffettiera per noi, poi mise a friggere in una casseruola delle fette di prosciutto e patate tagliate a fettine.
Guardai il prosciutto sfrigolante. — Non eri vegetariana?
— Certo. Mangerò fiocchi di grano e un po’ di quell’orribile latte ricostituito della nave, ma per questa prima e unica volta sono la cuoca e voi mangerete bene.
Mangiammo bene, seduti sulla parte anteriore della piattaforma, dove il sole ci scaldava e ci asciugava i vestiti. Da una tasca del giubbotto zuppo d’acqua tolsi il tricorno sgualcito, lo strizzai per eliminare l’acqua e lo calzai per ripararmi. Lo spettacolo provocò le risate di Aenea. Lanciai un’occhiata all’androide, ma A. Bettik era impassibile, come sempre… come se non avesse mai gridato yu-huu con noi.
L’androide tirò in posizione verticale un palo sulla prua della zattera (l’avevo sistemato in modo che ruotasse, per appendervi di notte una lanterna) si tolse la camicia e l’appese ad asciugare. Il sole brillò sulla sua pelle perfettamente azzurra.
— Una bandiera! — esclamò Aenea. — Proprio ciò che mancava a questa spedizione.
Mi misi a ridere. — Ma quella è bianca, non va bene. Significa… — M’interruppi.
Avevamo percorso lentamente un’ampia ansa del fiume. Ora vedemmo l’antico portale formare un arco per centinaia di metri sopra di noi e ai nostri lati. Interi alberi erano cresciuti nel suo interno; rampicanti ricadevano per diversi metri dagli intagli e dalle rientranze.
Andammo tutti al nostro posto: io al timone, stavolta; A. Bettik accanto alla pertica, come se si tenesse pronto a spingere via scogli o nemici all’abbordaggio; Aenea accoccolata a prua.
Per un intero minuto seppi che quel portale era una fregatura, che non avrebbe funzionato. Vedevo sotto l’arcata la ben nota giungla e il cielo azzurro, vedevo il fiume proseguire al di là dell’arco. Il panorama rimase normale finché non fummo all’ombra della gigantesca arcata. Dieci metri più avanti, un pesce saltò dall’acqua. Il vento arruffò i capelli di Aenea e produsse piccole onde sul fiume. Su di noi erano sospese tonnellate d’antico metallo che parevano il tentativo di un bambino di disegnare un ponte.
— Non succede niente… — cominciai.
L’aria si riempì d’elettricità, più improvvisa e terrificante della tempesta della notte. Pareva che dall’arco un gigantesco sipario fosse piombato direttamente sulla nostra testa. Caddi su un ginocchio, sentii il peso di quel sipario e subito dopo la sua mancanza di peso. Per un istante, troppo breve per essere misurato, mi sentii come quando il campo d’urto era esploso intorno a noi nella nave che precipitava… come un feto che si dimenasse in un sacco amniotico appiccicoso.