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I miei primi passi sopra un pianeta straniero… non furono passi, ma una bocca piena di sabbia.

Aenea e l’androide mi aiutarono a rialzarmi. Aenea scrutò lo scafo. — Come faremo a risalire? — domandò.

— Possiamo costruire una scala a pioli, trascinare fin qui un albero caduto, oppure — diedi un colpetto allo zaino — usare il tappeto hawking.

Rivolgemmo l’attenzione alla spiaggia e alla giungla. La spiaggia era stretta (solo alcuni metri, dalla prua della nave alla foresta) e formata di sabbia dai riflessi rossastri nella vivida luce del sole; la giungla era fitta e buia. Sulla spiaggia la brezza era fresca, ma sotto i fitti alberi il calore era palpabile. Venti metri più in alto le fronde delle gimnosperme frusciavano e ondeggiavano come antenne d’enormi insetti.

— Aspettate qui un minuto — dissi. Entrai al riparo degli alberi. Il sottobosco era fitto, costituito in massima parte di un tipo di felce rampicante, e il terreno era spugnoso per la notevole quantità di humus. La giungla odorava di umido e di marcio, ma l’odore era completamente diverso da quello delle paludi e degli acquitrini di Hyperion. Pensai agli acari-dracula e alle aguglie guerriere del mio piccolo, noioso pezzo di terre selvagge e guardai bene dove mettevo i piedi. Liane scendevano a spirale dai tronchi di gimnosperme e creavano un merletto nodoso davanti a me nella penombra. Capii che avrei dovuto aggiungere un machete al mio equipaggiamento base.

Non avevo percorso dieci metri quando all’improvviso un alto arbusto con grosse foglie rosse, un metro davanti al mio viso, si dissolse in un’esplosione di movimento e le "foglie" volarono via sotto il baldacchino della giungla: le coriacee ali delle creature facevano un rumore molto simile a quello delle grosse volpi volanti portate su Hyperion dalle navi coloniali dei nostri antenati.

— Maledizione — mormorai; a colpi e a spintoni mi aprii la strada per uscire da quell’umido intrico. Quando rimisi piede sulla spiaggia, avevo già la camicia a brandelli. Aenea e A. Bettik mi guardarono con ansia.

— È proprio una giungla — dissi.

Andammo al limitare dell’acqua, ci sedemmo sopra un ceppo parzialmente sommerso e guardammo la nostra nave spaziale. La poveretta pareva una grande balena arenata, come nei documentari sulla fauna selvatica della Vecchia Terra.

— Chissà se tornerà a volare — mormorai, rompendo una tavoletta di cioccolata e offrendone un pezzo alla bambina e all’androide.

«Oh, penso proprio di sì» disse una voce proveniente dal mio polso.

Confesso d’avere fatto un salto di dieci centimetri almeno. Mi ero dimenticato del braccialetto comlog.

— Nave? — dissi, alzando il polso e parlando direttamente nel braccialetto, come avrei fatto se avessi usato una radio portatile della Guardia Nazionale.

«Non è necessario parlare nel comlog» disse la nave. «Ricevo tutto con grande chiarezza, grazie. La domanda era: tornerò a volare? La risposta è: quasi certamente. Ho eseguito riparazioni molto più complesse, dopo l’arrivo nella città di Endymion, al mio ritorno su Hyperion.»

— Bene. Sono contento che tu possa… ah… riparare te stessa. Ti occorrono materiali grezzi? Parti di ricambio?

«No, grazie, signor Endymion. Per la maggior parte dei lavori basta utilizzare materiali esistenti e riprogettare alcune unità danneggiate. Le riparazioni non dovrebbero richiedere molto tempo.»

— Quant’è lungo, non molto tempo? — domandò Aenea. Terminò di mangiare la cioccolata e si leccò le labbra.

«Sei mesi standard» rispose la nave. «Salvo difficoltà impreviste.»

Ci scambiammo un’occhiata. Guardai la giungla. Ora il sole pareva più basso, i suoi raggi illuminavano di sbieco la cima delle gimnosperme e gettavano chiazze buie nella penombra sempre più fitta. — Sei mesi? — dissi.

«Salvo difficoltà impreviste» ripeté la nave.

— Qualche idea? — domandai ai miei due compagni.

Aenea si pulì le dita nel fiume, si spruzzò in viso un po’ d’acqua, si tirò indietro i capelli bagnati. — Siamo sul Teti — disse. — Andiamo a valle fino a trovare il prossimo teleporter.

— Puoi ripetere il trucchetto?

Lei si asciugò alla meglio il viso. — Quale trucchetto?

Gesticolai con noncuranza. — Oh, niente… far funzionare una macchina morta da tre secoli. Quel trucchetto lì.

Divenne seria. — Non ero sicura di poterlo fare, Raul. — Guardò A. Bettik, che ci guardava a sua volta, impassibile. — Giuro.

— Cosa sarebbe accaduto, se non ci fossi riuscita? — domandai, calmo.

— Ci avrebbero catturati — rispose Aenea. — Forse avrebbero lasciato andare voi due. Ma avrebbero portato me su Pacem. E nessuno avrebbe più avuto mie notizie.

Qualcosa, nel tono piatto, privo d’emozione, mi diede i brividi. — E va bene — dissi — ha funzionato. Ma come ci sei riuscita?

Aenea mosse la mano in quel lieve gesto che avrei imparato a conoscere bene. — Non lo so… con certezza — rispose. — Sapevo, dai miei sogni, che probabilmente il portale mi avrebbe lasciata passare…

— Ti avrebbe lasciata passare? — ripetei, stupito.

— Sì. Pensavo che mi avrebbe… riconosciuta. E così è stato.

Posai le mani sulle ginocchia e allungai le gambe, conficcando nella sabbia rossa i tacchi degli stivali. — Parli del teleporter come se fosse un organismo vivo e intelligente.

Aenea lanciò un’occhiata al portale mezzo chilometro più indietro. — In un certo senso, è proprio così. Difficile, spiegarlo.

— Ma sei sicura che i soldati della Pax non possano attraversarlo?

— Oh, certo! Il portale non si attiverà per nessun altro.

Inarcai il sopracciglio. — Allora come mai A. Bettik e io e la nave siamo passati?

Aenea sorrise. — Eravate con me.

Mi alzai. — Va bene, ci torneremo dopo. Per prima cosa occorre un piano. Facciamo subito un sopralluogo o prima prendiamo dalla nave le nostre cose?

Aenea guardò l’acqua scura del fiume. — E poi Robinson Crusoe si spogliò, raggiunse a nuoto la nave, si riempì le tasche di gallette e tornò a riva…

— Cosa? — dissi, alzando lo zaino e guardando la bambina, senza capire.

— Niente — disse lei, tirandosi in piedi. — Solo un vecchio libro pre-Egira che zio Martin soleva leggermi. Diceva sempre che i correttori di bozze sono degli asini incompetenti… anche mille e quattrocento anni fa.

Guardai l’androide. — Tu la capisci, A. Bettik?

L’androide mostrò quella lieve contrazione delle labbra che imparavo a riconoscere come sorriso. — Capire la signorina Aenea non rientra nei miei compiti, signor Endymion.

Sospirai. — Va bene, torniamo a bomba… Facciamo un sopralluogo, prima che scenda la notte, o recuperiamo la nostra roba?

— Voto per il sopralluogo — disse Aenea. Lanciò un’occhiata alla giungla sempre più scura. — Ma non là dentro.

— No — convenni. Tolsi dallo zaino il tappeto hawking e lo srotolai sulla sabbia. — Vediamo se su questo pianeta funziona. — Esitai, alzai il comlog. — Nave, come si chiama questo pianeta?

Seguì un secondo d’esitazione, come se la nave fosse occupata a rimuginare i suoi problemi. «Mi spiace, non posso stabilire quale pianeta sia, data la condizione dei miei banchi di memoria. I miei sistemi di navigazione potrebbero scoprirlo, naturalmente, ma dovrei vedere le stelle. Posso dirvi però che al momento in questa zona del pianeta non ci sono innaturali trasmissioni elettromagnetiche o microonda. Non ci sono neppure satelliti relè, né altri oggetti fatti dall’uomo, in orbita sincrona su di noi.»

— Va bene — dissi — ma dove siamo? — Guardai la bambina.

— Come potrei saperlo? — disse Aenea.

— Ci hai portati qui! — sbottai. Mi accorsi d’essermi spazientito con lei, ma in quel momento non me la sentivo, di portare pazienza.

Aenea scosse la testa. — Mi sono limitata ad attivare il teleporter, Raul. Il mio piano era semplice: allontanarmi dal Padre Capitano Vattelapesca e da tutte quelle navi. Nient’altro.

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