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Provai l’impulso di sedermi sul divano, ma riuscii a restare in piedi e a controllare la sensazione di vertigine, immaginando che il terreno fosse una gigantesca muraglia da sorvolare. Mentre avanzavamo, le vie e la griglia di edifici passavano sotto di noi. Feci un giro completo su me stesso, scorgendo le poche stelle più luminose attraverso il bagliore della città alle mie spalle. Le nuvole riflettevano le. luci arancione del complesso urbano.

— Cosa cerchiamo? — domandai. A intervalli la nave riferiva la presenza di velivoli che ci giravano intorno e il numero dei sensori che ci tenevano sotto controllo. Le avevamo ordinato di non badare alle insistenti richieste del controllore del traffico dello spazioporto.

Aenea voleva guardare il fiume. Ora lo sorvolavamo: un nastro scuro, sinuoso, che serpeggiava fra le luci della città. Costeggiammo il fiume, verso nordovest. Di tanto in tanto sotto di noi passava una chiatta o un battello di piacere, ma dal nostro punto di vista le luci parevano strisciare su o giù lungo la muraglia di edifici.

Invece di rispondere alla mia domanda, Aenea disse: — Nave, sei sicura che quello faceva parte del Teti?

«Sì, secondo le mie mappe» confermò la nave. «Ovviamente la mia memoria non…»

— Là! — esclamò A. Bettik, indicando un punto proprio sopra la linea scura del fiume.

Non scorsi niente, ma di sicuro Aenea vide qualcosa. — Abbassiamoci — ordinò alla nave. — Rapidamente.

«Abbiamo già superato i margini di sicurezza» obiettò la nave. «Se perdiamo ancora la quota, potremmo…»

— Esegui l’ordine! — gridò la bambina. — Prendo il comando manuale. Codice "Preludio… Do diesis". Esegui!

La nave si mosse di scatto in basso e in avanti.

— Punta verso quell’arco — ordinò Aenea, indicando un punto sulla verticale lungo la muraglia della città e del fiume.

— Arco? — dissi, stupito. Poi lo vidi… una corda nera, un arco di tenebra contro le luci della città.

A. Bettik guardò la bambina. — Quasi m’aspettavo che fosse svanito… abbattuto.

Aenea sorrise. — Non possono abbatterlo. Bisognerebbe usare esplosivi atomici… e forse non basterebbero neppure. Il TecnoNucleo ha provveduto a farli costruire… perché durassero.

Ora la nave procedeva a grande velocità sui propulsori. Vedevo chiaramente l’arcata del teleporter, simile a un gigantesco occhiello sopra il fiume. Un parco industriale era cresciuto intorno all’antico manufatto: i depositi ferroviari e i cortili di magazzinaggio erano deserti, a parte il cemento screpolato, le erbacce, i cavi arrugginiti e le carcasse di macchinari abbandonati. Il teleporter distava ancora un chilometro. Attraverso il portale scorgevo le luci della città… no, ora il portale pareva tremolare un poco, come se dall’arcata metallica cadesse un velo d’acqua.

— Stiamo per farcela! — dissi. Avevo appena terminato la frase, quando una violenta esplosione scosse la nave e iniziammo il tuffo verso il fiume.

— L’antico teleporter! — grida de Soya. Già da un minuto ha visto l’arco, ma l’ha ritenuto uno dei tanti ponti. Adesso capisce. — Sono diretti al teleporter. Quel tratto di fiume faceva parte del Teti! — Passa in ambiente tattico. Non si è sbagliato: la nave della bambina accelera in direzione dell’arcata.

— Calma — dice il comandante Barnes-Avne. — I teleporter non funzionano. Dall’epoca della Caduta non hanno più funzionato. Non si può…

— Accosta! — grida de Soya al pilota. La navetta accelera, li schiaccia contro l’imbottitura dei sedioli. Nelle navette non esiste il campo di contenimento interno. — Accosta! Accosta! — grida de Soya. Passa sui canali di comando a banda larga. «A tutti i velivoli, chiudere sul bersaglio.»

— Arriveranno prima di noi — dice il pilota Cook, malgrado i 3 g che la spingono contro lo schienale del sediolo di guida.

«Capo PAC!» chiama de Soya, con voce tesa per l’alto carico gravitazionale cui è sottoposto. «Fuoco sul bersaglio. Fuoco per disabilitare motori e propulsori. Ora!»

Raggi d’energia saettano nella notte. La nave della bambina pare incespicare a mezz’aria, come una belva colpita nelle viscere, e poi cade nel fiume, mancando il portale di alcune centinaia di metri. Nella notte si alza il fungo di un’esplosione di vapore.

La navetta vira intorno alla colonna di vapore, a mille metri di quota. L’aria turbina di velivoli e di soldati in volo. All’improvviso i canali di trasmissione si riempiono di voci eccitate.

«Silenzio!» ordina de Soya sulla banda ampia. «Capo PAC, vedete la nave?»

«Negativo» risponde Klaus. «Vapore e detriti dell’esplosione…»

«C’è stata esplosione?» domanda de Soya. Poi, sulla banda compatta per le vedette di difesa in orbita mille chilometri più in alto. «Radar? Sensori?»

«Nave bersaglio abbattuta» è la risposta.

«Questo lo so, idioti!» sbotta de Soya. «Riuscite a rintracciarla sotto la superficie del fiume?»

«Negativo» risponde la vedetta. «Troppi echi spurii a terra e in aria. Il radar non riesce a distinguere fra…»

«Maledizione» impreca de Soya. «Madre Capitano Stone?»

«Sì» risponde dalla nave torcia l’ex comandante in seconda di de Soya.

«Lo annienti. Il portale. Il fiume. Lo tenga sotto fuoco per un minuto intero. Vetrifichi tutto. Aspetti… lo vetrifichi fra trenta secondi.» Passa sulle bande tattiche aeree. «A tutti i velivoli e a tutti i soldati nelle vicinanze… avete trenta secondi prima che una lancia CPB colpisca l’intera zona. Sparpagliatevi! »

Il pilota Cook segue il consiglio e fa virare di scatto la navetta, accelerando a mach 1,5 in direzione dello spazioporto. — Ehi, ehi! — grida de Soya, malgrado il carico gravitazionale. — Solo un chilometro. Devo guardare.

Sia l’ambiente tattico sia l’ambiente visuale sono una palese dimostrazione della teoria del caos: centinaia di velivoli e di soldati volano lontano dal portale come per effetto di un’esplosione. Sul radar la zona è quasi vuota, prima che il raggio violaceo scenda dallo spazio. Largo dieci metri e troppo luminoso per essere guardato direttamente, il CPB centra in pieno l’antico teleporter. Cemento, acciaio e ferroplastica si fondono in laghi e fiumi di lava, sull’una e sull’altra riva del fiume vero e proprio. In un istante il fiume stesso si muta in vapore, manda l’onda d’urto e la nube di vapore a gonfiarsi sulla città per chilometri in ogni direzione. Stavolta la nube a forma di fungo raggiunge la stratosfera.

Il capitano Wu, padre Brown e tutti gli altri fissano il Padre Capitano de Soya. Quest’ultimo intuisce il loro pensiero: "Bisognava catturare viva la bambina".

Non bada al loro sguardo e dice al pilota: — Non conosco bene questo modello di navetta. Può stare sospesa?

— Per alcuni minuti — risponde il pilota. Sotto l’elmetto, ha il viso lucido di sudore.

— Portaci laggiù e resta sospeso sopra l’arcata del teleporter — ordina de Soya. — Cinquanta metri andranno bene.

— Signore — dice il pilota — le termali e le onde d’urto delle esplosioni di vapore…

— Esegua l’ordine, tenente — ordina il Padre Capitano, con voce calma, che però non ammette discussioni.

Si librano sopra il teleporter. Il vapore e una violenta pioggerella riempiono l’aria, ma i raggi di ricerca e il radar ad alto profilo penetrano in basso. L’arcata del teleporter splende al calor bianco, ma non è ancora crollata.

— Stupefacente — mormora il comandante Barnes-Avne.

La Madre Capitano Stone interviene sulla banda tattica. «Padre Capitano, il bersaglio è stato colpito, ma esiste ancora. Vuole che lo colpisca di nuovo?»

«No» dice de Soya. Sotto l’arcata, il fiume si è autocauterizzato e l’acqua rifluisce sulla cicatrice surriscaldata. Nuovo vapore sale al cielo, mentre le rive d’acciaio e di cemento fusi colano nell’acqua. I microfoni esterni captano benissimo il sibilo. Il fiume è impazzito, pieno di gorghi e di mulinelli. E di detriti turbinanti.

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