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Avevamo già chiesto a padre Glauco di fare da interprete per rinnovare agli indigeni la richiesta d’aiuto e ora il vecchio prete affrontò l’argomento, chiedendo ai Chitchatuk se avevano voglia di darci una mano per portare a valle la zattera. I Chitchatuk risposero rivolgendosi a turno a padre Glauco e a ciascuno di noi, dicendo essenzialmente la stessa cosa: erano pronti a fare il viaggio.

Non sarebbe stato un viaggio semplice. Cuchiat confermò che c’erano tunnel in discesa lungo il fiume fino alla seconda arcata, almeno duecento metri più in basso del punto dove ci trovavamo in quel momento, e che c’era un tratto d’acqua libera, dove il fiume passava sotto il teleporter, ma…

Non c’erano tunnel di collegamento fra la città sepolta e la seconda arcata, una trentina di chilometri verso nord.

— Avevo proprio intenzione di domandarlo — disse Aenea. — Qual è l’origine dei tunnel? Sono troppo regolari e arrotondati per essere crepacci o fenditure. Li hanno costruiti i Chitchatuk, in qualche periodo del passato?

Padre Glauco girò la testa, incredulo, verso la bambina. — Non lo sai? — esclamò. Rivolse ai Chitchatuk una raffica di parole. La reazione di questi ultimi fu quasi esplosiva: chiacchiericcio animato, quella sorta d’abbaio che ritenevamo il loro modo di ridere.

— Mi auguro di non averti offeso, mia cara — disse il vecchio prete. Sorrideva, occhi rivolti nella direzione di Aenea. — È un aspetto così scontato della nostra esistenza qui, che ne sono rimasto colpito… io e il Popolo Indivisibile. Ci è sembrato buffo e divertente che qualcuno si muova nei tunnel di ghiaccio e ne ignori l’origine.

— Il Popolo Indivisibile? — domandò A. Bettik.

— Chitchatuk — spiegò padre Glauco — significa "indivisibile"… o forse, avvicinandosi di più alla sua esatta sfumatura… "non atto a essere reso più perfetto".

Aenea sorrideva. — Non mi sono offesa — disse. — Vorrei solo capire la battuta. Chi ha costruito i tunnel?

— Gli spettri artici — azzardai, prima che il prete potesse rispondere.

Il sorriso si rivolse nella mia direzione. — Esatto, caro amico Raul — disse il prete. — Esatto.

Aenea corrugò la fronte. — Hanno artigli formidabili, ma neppure da adulti potrebbero scavare tunnel così lunghi nel solido ghiaccio… o no?

Scossi la testa. — Mi sa che non abbiamo mai visto la loro forma adulta.

— Esatto, esatto — disse il vecchio prete, con grandi cenni. — Raul ha ragione, mia cara. I Chitchatuk cacciano i cuccioli più giovani, se possibile. I cuccioli più anziani cacciano i Chitchatuk, se possibile. Ma i cuccioli di spettro artico, come l’esemplare da voi visto, sono lo stadio larvale di quelle creature. Durante questo stadio, gli spettri artici si nutrono e si muovono quasi in superficie, ma entro tre orbite di Sol Draconis Septem…

— Ossia ventinove anni standard — mormorò A. Bettik.

— Esatto, esatto — annuì il prete. — In tre anni locali, ventinove anni standard, lo spettro artico ancora immaturo… il "cucciolo", per quanto la definizione sia usata in genere per i mammiferi… subisce la metamorfosi e diventa il vero spettro artico, che scava nel ghiaccio alla velocità di circa venti chilometri all’ora. È lungo circa cinquanta metri e… be’, forse ne incontrerete uno, nel viaggio a nord.

Mi schiarii la gola. — Cuchiat e Chiaku spiegavano, mi pare, che non ci sono tunnel di collegamento fra questa zona e quella del teleporter…

— Ah, sì — disse padre Glauco. Riprese a parlare nel linguaggio dei Chitchatuk. Cuchiat rispose e il prete disse: — Circa venticinque chilometri in superficie, più di quanto al Popolo Indivisibile piaccia percorrere in un’unica tratta. E Aichacut fa gentilmente notare che quella zona pullula di spettri artici, cuccioli e adulti… tanto che il Popolo Indivisibile che lì visse per secoli è stato tutto mutato in collane di teschi per gli spettri. Fa notare che questo mese le tempeste artiche spazzano la superficie. Ma per voi, amici miei, sono disposti a fare il viaggio.

Scossi la testa. — Non capisco. La superficie è in pratica priva d’aria, giusto? Voglio dire…

— Hanno tutti i materiali di cui avrete bisogno per il viaggio, Raul, figliolo — disse padre Glauco.

Aichacut ringhiò qualcosa. Cuchiat aggiunse qualche altra frase, in tono più calmo.

— Sono pronti a partire appena vi decidete, amici miei. Cuchiat dice che occorreranno due periodi di sonno e tre di marcia per tornare alla vostra zattera. Poi punteranno a nord, fin dove giungono i cunicoli… — S’interruppe e per un momento distolse il viso.

— Cosa c’è? — domandò Aenea, preoccupata.

Padre Glauco girò la testa. Mostrò un sorriso sforzato. Si ravvivò la barba. — Sentirò la vostra mancanza. Era tanto tempo che non… ah, divento vecchio! Venite, vi aiuteremo a preparare i bagagli, faremo un veloce spuntino e vedremo se nella dispensa c’è qualcosa da aggiungere alle vostre provviste.

Il congedo fu doloroso. Il pensiero del vecchio prete, di nuovo lì da solo, con niente di più di poche lampade accese per tenere a bada gli spettri artici e il ghiacciaio planetario, mi faceva male al cuore. Aenea pianse. Quando A. Bettik gli strinse la mano, padre Glauco l’abbracciò con forza, lasciandolo stupito. — Il suo giorno deve ancora giungere, signor Bettik, amico mio — disse. — Lo sento. Lo sento chiaramente.

A. Bettik non rispose, ma più tardi, mentre seguivamo i Chitchatuk nel cuore del ghiacciaio, vidi che si girava a lanciare un’occhiata all’alta figura stagliata contro la luce; poi, superato l’angolo, imboccammo un altro tunnel che ci nascose l’edificio, la luce e il vecchio prete.

Impiegammo davvero due periodi di sonno e tre di marcia per giungere all’ultima rampa di ghiaccio, scesa sdruccioloni; attraversammo la stretta fenditura e uscimmo nel punto dove la zattera era legata. Non c’era modo, a mio parere, di portare i tronchi nei tunnel pieni di curve e di strettoie; ma stavolta i Chitchatuk non persero tempo ad ammirare la zattera rivestita di ghiaccio e si misero subito al lavoro, sciogliendo i legacci e separando i tronchi.

Durante la prima visita, tutta la banda si era meravigliata alla vista della nostra ascia e ora fui in grado di mostrare come si usava: tagliai ogni tronco in pezzi più corti, ciascuno di un metro e mezzo. Utilizzando la mia torcia laser ormai a corto di carica, A. Bettik e Aenea mi imitarono, nella nostra improvvisata catena di montaggio; intanto i Chitchatuk raschiavano il ghiaccio dalla zattera che stentava a stare a galla, tagliavano o disfacevano nodi e portavano i tronchi nel punto dove li tagliavamo e li ammucchiavamo. Al termine, sulla sporgenza di ghiaccio c’erano anche la pietra focolare e le lanterne extra, mentre i tronchi erano accatastati nel tunnel, come la legna da ardere per l’anno venturo.

Sulle prime quel pensiero mi divertì, ma poi mi resi conto di quanto sarebbe stata gradita ai Chitchatuk una simile provvista di materiale combustibile… calore, luce per tenere lontano gli spiriti artici. Guardai con occhi diversi la nostra zattera smantellata. Be’, se non riuscivamo ad attraversare il secondo portale…

Servendoci ora di Aenea come interprete, comunicammo a Cuchiat che ci sarebbe piaciuto lasciargli l’ascia, il focolare e le varie altre cose. Mi sembra giusto dire che le facce dietro i denti di spettro artico parvero sbalordite. I Chitchatuk si ammassarono intorno a noi, ci abbracciarono e ci diedero manate sulle spalle, con forza tale da lasciarci senza fiato. Perfino il rabbioso Aichacut mostrò qualcosa di simile a un rude affetto.

Ogni membro della banda si legò sulla schiena tre o quattro pezzi di tronco; A. Bettik, Aenea e io li imitammo (i tronchi pesavano come se fossero di cemento, in quella gravità) e iniziammo il lungo viaggio in salita, verso la superficie, il vuoto, le tempeste e gli spettri artici.

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