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La fune era quasi troppo rigida per farne una matassa. Quando finalmente tirammo a bordo il comlog, fummo obbligati a rompere il ghiaccio che lo rivestiva. «Anche se il freddo riduce il mio alimentatore di corrente e il ghiaccio copre i miei visori» cinguettò il comlog «sono in grado di continuare l’esplorazione e disponibile a farlo.»

— No, grazie — rispose educatamente A. Bettik. Spense l’aggeggio e me lo restituì. Anche con i calzini a mo’ di guanti, sentii che il metallo era freddissimo. Lasciai subito cadere nello zaino il braccialetto.

— Non avremmo avuto plastico sufficiente per cinquanta metri di ghiaccio — dissi. Avevo parlato con voce assolutamente calma (avevo anche smesso di tremare) e ne capii il motivo: la cristallina e ineccepibile chiarezza della sentenza di morte appena scesa su di noi.

C’era, me ne rendo conto adesso, un’altra ragione per quell’oasi di calma in un deserto di sofferenza e di disperazione. Il calore. Il calore che ben ricordavo. Il flusso di vita da quei due a me, l’accettazione da parte mia, il sacro senso di comunione. Ora, nel buio rotto solo dalla luce della lanterna, procedemmo con l’urgente compito di tentare di restare vivi, discutemmo soluzioni impossibili come l’uso della carabina al plasma per aprirci una via nel ghiaccio, scartammo soluzioni impossibili, esaminammo altri piani impossibili. Ma nel frattempo, in quel gelido e buio abisso di confusione e di crescente disperazione, il nucleo di calore che era stato alitato dentro di me da quei due… sì, amici… mi mantenne calmo, proprio come il loro contatto umano mi aveva tenuto in vita. Nei difficili giorni a venire (perfino adesso, mentre scrivo queste righe, mentre m’aspetto che a ogni respiro giunga, furtiva, la morte mediante cianuro) il ricordo di quel calore condiviso, di quella prima totale comunione di vita, mi mantiene calmo e saldo nella tempesta delle umane paure.

Decidemmo di spingere di nuovo la zattera a monte per tutto il nuovo canale, alla ricerca di un crepaccio, una nicchia, un pozzo, che ci fossero sfuggiti. Pareva un’impresa disperata, ma forse un briciolo meno disperata di lasciare che la zattera continuasse a premere contro quella terminale cascata di ghiaccio.

Trovammo la fenditura proprio sotto il punto dove il fiume ci aveva costretto a piegare a destra. Evidentemente eravamo stati troppo impegnati a tenerci a distanza dalla parete di ghiaccio e a tornare al centro della corrente, per notare il crepaccio stretto e frastagliato lungo la muraglia alla nostra sinistra. Anche se cercavamo con diligenza, senza il raggio compatto della torcia laser non avremmo mai scoperto la stretta apertura: la luce della lanterna, riflessa dalle sfaccettature cristalline e dalle stalattiti, la rendeva invisibile. Il buon senso ci disse che si trattava semplicemente di un’altra piega di ghiaccio, l’equivalente orizzontale dei crepacci da me trovati nel soffitto: uno spazio per respirare che non portava da nessuna parte. Il nostro bisogno di speranza pregò che il buon senso sbagliasse.

L’apertura (o piega o qualsiasi cosa fosse) era larga meno di un metro e si apriva all’aria quasi due metri sopra il fiume. Ci accostammo e alla luce della torcia laser vedemmo che l’apertura o si restringeva e terminava, oppure curvava dopo meno di tre metri. Il buon senso ci disse che quella era la fine del vicolo cieco di ghiaccio. Anche stavolta lasciammo perdere il buon senso.

Mentre Aenea faceva forza sulla pertica per mantenere ferma la zattera malgrado il ribollire dell’acqua, A. Bettik mi sollevò. Usai l’estremità biforcuta del martello come attrezzo da scalata: la piantai profondamente nel pavimento di ghiaccio della stretta gola e mi tirai su con la velocità della disperazione. Una volta carponi sul ripiano, ansimante e sfinito, ripresi fiato, mi alzai e rivolsi un gesto agli altri due più in basso. Avrebbero aspettato il mio rapporto.

Lo stretto tunnel di ghiaccio piegò bruscamente a destra. Sentendo aumentare la speranza, illuminai con la torcia laser il nuovo corridoio. Un’altra parete di ghiaccio riflette il raggio, ma stavolta non mi parve una curva. No… un momento. Mentre m’inoltravo nel nuovo tunnel, piegato in due a causa del basso soffitto, mi accorsi che subito dopo quel punto il tunnel saliva ripidamente. Il raggio era stato riflesso da una rampa di ghiaccio. Lì non esisteva la percezione della profondità.

M’infilai nello spazio ristretto, strisciai carponi per una decina di metri, raschiando con gli stivali il ghiaccio frastagliato. Pensai al negozio della deserta Nuova Gerusalemme dove avevo "comprato" quegli stivali (lasciando in cambio sul bancone le pantofole d’ospedale e una manciata di banconote provvisorie di Hyperion) e cercai di ricordare se nel reparto sportivo c’erano stati in vendita ramponi da ghiaccio. Troppo tardi, ormai.

A un certo punto fui costretto a strisciare sullo stomaco, di nuovo sicuro che il tunnel sarebbe terminato nel giro di un metro; ma stavolta il tunnel girò bruscamente a sinistra e continuò, dritto e in piano, nel cuore del ghiacciaio, per altri venti metri, prima di deviare a destra e salire di nuovo. Ansimante, scosso dall’eccitazione, corsi, scivolai e a colpi di martello tornai indietro verso l’apertura. Il raggio della torcia laser traeva dal ghiaccio innumerevoli riflessi della mia faccia eccitata.

Appena ero scomparso alla loro vista, Aenea e A. Bettik avevano iniziato a impacchettare l’equipaggiamento necessario. Aenea era già sul ripiano di ghiaccio e ammonticchiava i bagagli che A. Bettik le lanciava. Ci scambiammo a gran voce suggerimenti e consigli. Ogni cosa pareva indispensabile: sacchi a pelo, termocoperta, tenda (che per la brina e per il ghiaccio formò un pacchetto grosso il triplo del normale) termocubo, provviste, bussola inerziale, armi, torce elettriche.

Alla fine gran parte dei bagagli fu sul ripiano. Discutemmo ancora (l’esercizio fisico e le sue esalazioni ci tennero caldi per un minuto) poi scegliemmo proprio l’indispensabile e ciò che poteva entrare negli zaini e nelle sacche a spalla. M’infilai nella cintura la pistola e legai allo zaino la carabina al plasma. A. Bettik accettò di portare la doppietta e mise le munizioni in cima allo zaino già pieno. Per fortuna gli zaini non contenevano vestiti (avevamo addosso tutti gli abiti disponibili) quindi vi ammassammo cibo e attrezzature. Aenea e l’androide tennero le ricetrasmittenti; io m’agganciai al polso il comlog ancora gelato. Malgrado questa precauzione, non intendevamo certo perderci di vista.

Manifestai la preoccupazione che la corrente portasse via la zattera (la pertica e i resti del timone non l’avrebbero tenuta ancorata a lungo) ma A. Bettik risolse in un attimo il problema: preparò gomene di poppa e di prua, fuse due nicchie nella parete ghiacciata e legò i cavi attorno a gallocce di solido ghiaccio.

Prima d’affrontare lo stretto cunicolo diedi un’ultima occhiata alla nostra fedele zattera, pensando che non l’avremmo più rivista. Era uno spettacolo patetico: il focolare di pietra era ancora al suo posto, ma il timone era a pezzi, l’albero maestro con la lanterna a prua era rotto e scheggiato, gli spigoli erano ammaccati e i tronchi laterali erano quasi a pezzi, la prua era inondata, l’intera imbarcazione aveva una patina di ghiaccio ed era seminascosta dai gelidi vapori che turbinavano intorno a noi. Espressi con un cenno la mia gratitudine e l’ultimo saluto al penoso relitto, mi girai e feci strada, a destra e poi in alto, spingendo avanti a me, nel tratto più basso e più stretto, il pesante zaino e la sacca rigonfia.

Avevo temuto che il tunnel terminasse qualche metro dopo il punto dove ero arrivato nell’esplorazione, ma trenta minuti di salita, strisciando e scivolando, ci portarono ad altri tunnel, ad altre curve, sempre verso l’alto. Anche se la fatica ci manteneva vivi, se non proprio caldi, ciascuno di noi sentiva nel proprio corpo i progressi del gelo. Presto o tardi la stanchezza avrebbe avuto il sopravvento: saremmo stati costretti a fermarci, a estrarre i sacchi a pelo e a scoprire se saremmo riusciti a svegliarci dopo avere dormito in quel freddo. Presto o tardi, ma non subito.

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