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Piango adesso, nel raccontarlo.

Non so quanto tempo restammo in quella posizione. Non l’ho mai domandato e loro non ne hanno mai parlato. Sarà stata almeno un’ora. Parve un’intera vita di tepore e di sofferenza e d’kresistibile gioia per il ritorno della vita.

A un certo punto cominciai a rabbrividire, poi a tremare e poi fui in preda a un tremito violento, come per una crisi. Allora i miei amici mi tennero fermo, non mi permisero di sottrarmi al calore. Credo che a quel punto anche Aenea piangesse, ma non gliel’ho mai chiesto e in seguito lei non ne parlò mai.

Alla fine, dopo che il dolore e la paralisi mi erano in gran parte passati, A. Bettik scivolò fuori della comune protezione, consultò il medipac e si rivolse alla bambina in un linguaggio che potevo di nuovo capire: — Tutte le spie sul verde — disse piano. — Nessun congelamento permanente. Nessun danno permanente.

Poco dopo Aenea uscì da sotto la coperta e mi aiutò a mettermi seduto, sistemandomi dietro la schiena e la testa due zaini incrostati di brina. Mise a bollire acqua sul termocubo, preparò tazze di tè fumante e me ne accostò una alle labbra. A quel punto potevo muovere le mani, perfino flettere le dita, ma il dolore era troppo forte per consentirmi di reggere un qualsiasi oggetto.

— Signor Endymion — disse A. Bettik, accucciato sull’ingresso della tenda — sono pronto a trasmettere il codice di detonazione.

Risposi con un cenno d’assenso.

— Potrebbe verificarsi una pioggia di detriti, signore.

Ripetei il cenno d’assenso. Avevamo già parlato di quel rischio. Le cariche sagomate avrebbero dovuto frantumare solo le pareti di ghiaccio davanti a noi, ma le risultanti vibrazioni sismiche avrebbero potuto far crollare l’intero cumulo d’atmosfera ghiacciata, bloccare la zattera contro il basso fondale e seppellirci vivi. Avevamo giudicato che valesse la pena correre il rischio. Ora lanciai un’occhiata all’interno della microtenda contornata di brina e sorrisi al pensiero che quel misero riparo potesse offrirci protezione. Annuii per la terza volta, esortando A. Bettik a procedere.

Il rumore dell’esplosione fu più soffocato di quanto non m’aspettassi, inferiore a quello della concomitante caduta di blocchi di ghiaccio e di stalattiti, a quello del terrificante sollevamento del fiume stesso. Per un secondo pensai che l’acqua ci avrebbe sollevati e schiacciati contro il soffitto, mentre le onde, spinte dalla pressione e spostate dal ghiaccio, invadevano la zattera. Ci rannicchiammo intorno al piccolo focolare di pietra e cercammo di evitare la gelida acqua, cavalcando i tronchi scalpitanti come passeggeri di una scialuppa squassata dalla burrasca.

Alla fine le ondate e i rombi si calmarono. I violenti scossoni avevano rotto il timone e sbattuto via una delle pertiche, ci avevano spostati dal nostro sicuro rifugio e ci avevano spinti a valle fino alla muraglia di ghiaccio.

Per meglio dire, fin dove poco prima c’era la muraglia di ghiaccio.

Le cariche avevano eseguito il loro lavoro come avevamo progettato: ora la caverna era bassa e frastagliata ma, dopo un esame alla luce della torcia laser, pareva sbucare nel canale aperto. Aenea lanciò un grido d’esultanza. A. Bettik mi diede una pacca sulla schiena. Ammetto con vergogna che forse piansi di nuovo.

Non era una facile vittoria, come parve sulle prime. Blocchi e colonne di ghiaccio ostruivano ancora parte del passaggio; anche quando i lastroni diminuirono l’impeto iniziale verso la breccia, l’avanzata con l’unica pertica rimasta risultò difficile e richiese frequenti pause per consentire ad A. Bettik di frantumare a colpi d’ascia i vari ostacoli.

Dopo mezz’ora di fatica dell’androide, barcollai fin sul bordo della zattera e indicai a gesti che era il mio turno di usare l’ascia.

— È proprio sicuro, signor Endymion? — obiettò A. Bettik.

— Proprio… sicuro… — risposi, formulando con cautela le parole e costringendo la lingua e le labbra a pronunciarle correttamente.

Il lavoro con l’ascia ben presto mi scaldò al punto da eliminare gli ultimi tremiti. Sentivo le ammaccature e le scorticature che mi ero procurato contro il soffitto di ghiaccio, ma al dolore avrei pensato più tardi.

Alla fine ci aprimmo un varco tra le ultime lastre di ghiaccio e ci trovammo nella corrente aperta. Tutt’e tre battemmo per un momento le mani inguantate nei calzini, poi tornammo a rannicchiarci intorno al termocubo e a illuminare con le torce il panorama ai lati, mentre la zattera continuava ad avanzare.

Il nuovo panorama era identico al precedente: pareti verticali di ghiaccio a destra e a sinistra, stalattiti che minacciavano di cadérci addosso da un momento all’altro, rapidi flutti d’acqua nera.

— Forse il fiume resterà aperto fino alla prossima arcata — disse Aenea. Il suo alito condensato rimase sospeso nell’aria come una promessa.

Ci alzammo tutti, mentre la zattera seguiva la curva del fiume sepolto nel ghiaccio. Per un momento ci fu confusione, mentre A. Bettik usava la pertica e io il timone spezzato, per evitare che la zattera urtasse contro la parete di sinistra. Alla fine ci ritrovammo di nuovo al centro della corrente e la velocità della zattera aumentò.

— Oh… — si lasciò sfuggire Aenea, ferma a prua. Il suo tono bastò a farci capire tutto.

Il fiume proseguiva ancora per sessanta metri, si restringeva e terminava contro un’altra muraglia di ghiaccio.

Aenea ebbe l’idea di mandare avanti in avanscoperta il braccialetto comlog. — Ha la microcamera — disse.

— Ma noi non abbiamo il monitor — obiettai. — E non posso mandare alla nave i segnali video…

Aenea già scuoteva la testa. — No, ma il comlog stesso può riferirci ciò che vede.

— Be’, sì — convenni; finalmente avevo capito. — Ma senza avere alle spalle PIA della nave è abbastanza intelligente da capire ciò che vede?

— Domandiamoglielo — suggerì A. Bettik, che aveva recuperato dal mio zaino il braccialetto comlog.

Lo attivammo e ponemmo la domanda. Il comlog ci assicurò, nella quasi arrogante voce della nave, che era del tutto capace di analizzare i dati visivi e di trasmetterci l’analisi. Anche se non galleggiava e non aveva mai imparato a nuotare, era, ci assicurò, assolutamente impermeabile.

Aenea usò la torcia laser per tagliare un pezzo di tronco, vi piantò dei chiodi e dei perni ad anello per fissare il braccialetto e anche un moschettone per la fune. Annodò la corda con un doppio nodo da marinaio.

— Avremmo dovuto usare questo sistema anche per la prima parete — dissi.

Aenea sorrise. Il suo cappello era bordato di brina. Veri e propri ghiaccioli pendevano dalla stretta tesa. — Il braccialetto forse avrebbe avuto qualche difficoltà a sistemare le cariche — disse Aenea. Mi accorsi che era sfinita.

— Buona fortuna — dissi come uno sciocco mentre lanciavamo nel fiume il pezzo di tronco col braccialetto. Il comlog ebbe la buona grazia di non rispondere. Quasi subito fu trascinato sotto la parete di ghiaccio.

Spostammo a prua il termocubo e ci accucciammo lì vicino, mentre A. Bettik alava la corda. Alzai il volume del ricevitore e nessuno di noi aprì bocca, mentre la corda si svolgeva e la voce metallica del comlog faceva rapporto.

«Dieci metri. Crepacci in alto, nessuno più largo di sei centimetri. Il ghiaccio continua.»

«Venti metri. Il ghiaccio continua.»

«Cinquanta metri. Ghiaccio.»

«Settantacinque metri. La fine del ghiaccio non è in vista.»

«Cento metri. Ghiaccio.» Il comlog era giunto alla fine della corda. Annodammo al capo il nostro ultimo pezzo di fune.

«Centocinquanta metri. Ghiaccio.»

«Centottanta metri. Ghiaccio.»

«Duecento metri. Ghiaccio.»

Avevamo terminato corda e speranza. Cominciai a ritirare il comlog. Anche se ora le mie mani erano sensibili e goffamente funzionali, avevo difficoltà a tirare controcorrente il braccialetto in pratica privo di peso, perché la trazione dell’acqua era forte e la corda era appesantita dal ghiaccio. Ancora una volta non riuscii a immaginare quale fatica avesse fatto A. Bettik per tirare a bordo me.

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