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Scossi la testa. — In ogni caso è stata una sciocchezza.

— Non c’è di che — disse Aenea.

Il decimo giorno provai a stare in piedi. Fu una breve vittoria, ma sempre vittoria. Il dodicesimo giorno riuscii a percorrere il corridoio fino al gabinetto in fondo. Quella fu una vittoria importante. Il tredicesimo giorno la rete elettrica smise di funzionare in tutta la città.

Nell’ospedale subentrarono i generatori d’emergenza posti nel seminterrato, ma capimmo di non avere più molto tempo.

— Mi piacerebbe portare con noi il robochirurgo — dissi quell’ultima sera, mentre ce ne stavamo seduti sulla terrazza dell’ottavo piano a guardare i viali coperti d’ombra.

— Sulla zattera ci starebbe — riconobbe A. Bettik. — Ma la prolunga sarebbe un problema.

— Senza scherzi — dissi, cercando di non sembrare l’infermo paranoide e demoralizzato che mi sentivo in quel momento — dobbiamo controllare le farmacie locali e rifornirci della roba che ci occorre.

— Già fatto — disse Aenea. — Tre nuovi medipac migliorati. Un’intera borsa di cartucce di plasma sanguigno. Un’apparecchiatura diagnostica portatile. Ultramorfina… ma non chiederla, oggi non ne avrai.

Protesi la sinistra. — Vedi? Oggi pomeriggio ha smesso di tremare. Non chiederò tanto presto altra morfina.

Aenea annuì. In alto, nuvole vaporose rosseggiavano per l’ultima luce della sera.

— Quanto resisteranno secondo te i generatori d’emergenza? — domandai all’androide. L’ospedale era uno dei pochi edifici ancora illuminati.

— Alcune settimane, forse — rispose A. Bettik. — La griglia energetica ha continuato ad autoripararsi e a funzionare per mesi, ma questo è un pianeta aspro… avrà notato anche lei le tempeste di sabbia che giungono dal deserto ogni mattina… e per quanto la tecnologia sia abbastanza avanzata per un mondo che non appartiene alla Pax, sono necessari tecnici umani per la manutenzione.

— L’entropia è una puttana — sospirai.

— Su, su — disse Aenea, appoggiata alla parete della terrazza. — L’entropia può esserci amica.

— Quando?

Aenea si girò in modo da stare appoggiata sul gomito. Dietro di lei, l’edificio era un rettangolo scuro che metteva in rilievo lo splendore della sua pelle abbronzata. — Logora gli imperi — disse Aenea. — E manda in rovina i dispotismi.

— Facile a dirsi — replicai. — Di quali dispotismi parliamo?

Aenea fece quel tipico gesto di noncuranza e per un momento pensai che non avrebbe aggiunto altro; poi invece disse: — Gli Unni, gli Sciti, i Visigoti, gli Ostrogoti, gli Egizi, i Macedoni, i Romani, gli Assiri.

— Sì, ma…

— Gli Avar e i Wei del Nord — continuò Aenea — e i Juan-Juan, i Mamelucchi, i Persiani, gli Arabi, gli Abbasidi, i Seljuk.

— Certo, ma non vedo…

— I Curdi e i Ghaznavidi — continuò, ora sorridendo. — Per non parlare di Mongoli, Sui, Tang, Buminidi, Crociati, Cosacchi, Prussiani, Nazisti, Sovietici, Giapponesi, Giavanesi, Ammeri del Nord, Cinesi Uniti, Colombo-peruviani e Nazionalisti Antartici.

Alzai la mano. Aenea smise. Guardando A. Bettik, dissi: — Non conosco nemmeno quei pianeti. E tu?

— Ritengo che si riferiscano tutti alla Vecchia Terra, signor Endymion — rispose l’androide con espressione neutra.

— Niente stronzate.

— Niente stronzate mi pare corretto, in questo contesto — replicò A. Bettik, in tono piatto.

Tornai a guardare Aenea. — Allora è questo, il nostro piano per rovesciare la Pax e far contento il vecchio poeta? Nasconderei da qualche parte e aspettare che l’entropia pretenda il suo scotto?

Aenea incrociò di nuovo le braccia. — No no — disse. — In condizioni normali sarebbe stato un buon piano… starsene accucciati per qualche millennio e lasciare che il tempo segua il suo corso… ma quei maledetti crucimorfi complicano l’equazione.

— E allora? — dissi, in tono serio.

— Anche se volessimo rovesciare la Pax… cosa che, tra parentesi, non voglio: è compito tuo… anche se volessimo rovesciare la Pax, l’entropia ormai non è più dalla nostra parte, con quel parassita che può rendere la gente quasi immortale.

— Quasi immortale — mormorai. — Mentre ero moribondo, ho pensato al crucimorfo, lo confesso. Sarebbe stato molto più facile… e molto meno doloroso delle operazioni chirurgiche e della convalescenza… morire e lasciare che quell’affare mi risuscitasse.

Aenea ora mi fissava. Alla fine disse: — Proprio per questo Hebron aveva il miglior servizio sanitario nell’ambito della Pax e fuori.

— Ossia? — Avevo ancora la mente annebbiata dai medicinali e dalla stanchezza.

— I suoi abitanti erano… sono… ebrei. Pochissimi hanno accettato la croce. Avevano a disposizione una vita sola.

Restammo in silenzio per un poco, quella sera, mentre le ombre riempivano i canyon di Nuova Gerusalemme e l’ospedale ronzava di vita elettrica, finché era possibile.

Il mattino seguente andai con le mie gambe fino al vecchio veicolo che mi aveva portato all’ospedale tredici giorni prima; poi, seduto sul pianale, dove mi avevano preparato un giaciglio, ordinai di cercare un negozio d’armi.

Dopo un’ora di giri fu chiaro che a Nuova Gerusalemme non esistevano negozi d’armi. — E va bene — dissi. — Proviamo in una centrale di polizia.

Ce n’erano diverse. Entrai zoppicando nella prima, rifiutando l’aiuto dell’androide e della bambina, e scoprii ben presto fino a che punto possa essere insufficientemente armata una società pacifica. Nella centrale di polizia non c’erano rastrelliere d’armi, neppure di fucili a canna corta per interventi d’ordine pubblico, né di storditori.

— Ho il sospetto che su Hebron non ci sia mai stato l’esercito e neppure la Guardia Nazionale — commentai.

— Penso proprio di no — disse A. Bettik. — Fino all’incursione Ouster, tre anni standard fa, sul pianeta non esistevano nemici umani né animali pericolosi.

Borbottai qualcosa e continuai a cercare. Alla fine, forzato l’ultimo cassetto a triplice serratura della scrivania di un capo di polizia, trovai qualcosa.

— Una Steiner-Ginn, mi pare — disse l’androide. — Una pistola che spara minicariche al plasma.

— So cos’è — replicai. Nel cassetto c’erano due caricatori. Quindi, circa sessanta colpi. Andai fuori, puntai la pistola verso una lontana collina e premetti il grilletto anulare. La pistola tossì e sul fianco della collina comparve un minuscolo bagliore. — Bene — dissi, infilando nella fondina l’antiquata pistola. Avevo temuto che fosse un’arma "a firma", cioè utilizzabile solo dal proprietario. Nel corso dei secoli, simili armi venivano e passavano di moda.

— Sulla zattera abbiamo la pistola a fléchettes — cominciò A. Bettik.

Scossi la testa: per un bel pezzo non volevo avere niente a che fare con quella roba.

Durante la mia convalescenza, A. Bettik e Aenea avevano fatto provvista d’acqua e di cibo; quando andai all’approdo nel canale e guardai la zattera riattrezzata e rifornita, vidi infatti le scatole extra.

— Domanda — dissi. — Perché continuiamo a usare questo mucchio di legname, mentre legati laggiù ci sono piccoli e comodi motoscafi da diporto? In alternativa, potremmo prendere un VEM e viaggiare godendoci anche l’aria condizionata.

Aenea e A. Bettik si guardarono. — Mentre eri in convalescenza — disse Aenea — abbiamo votato. Teniamo la zattera.

— E io non voto? — replicai, brusco. Volevo solo fingermi in collera, ma scoprii d’essere in collera davvero.

— Certo — disse Aenea, ferma sul pontile, ben dritta, a gambe larghe, mani sui fianchi. — Vota!

— Voto per prendere un VEM e viaggiare comodamente — dissi, notando con disgusto il mio tono petulante. Proseguii senza cambiarlo. — Oppure uno di quei motoscafi. Voto per lasciar perdere quei tronchi.

— Voto conteggiato — disse Aenea. — A. Bettik e io abbiamo votato per tenere la zattera. Non ha bisogno di ricarica e galleggia. Uno di quei motoscafi sarebbe stato rilevato dai radar, su Mare Infinitum; e poi su certi pianeti i VEM non funzionano. Due voti favorevoli, uno contrario. Teniamo la zattera.

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