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In quell’istante mi resi conto che come spia non sarei mai stato un asso. L’incursione sulla piattaforma era stata un disastro da cima a fondo. I soldati della Pax non erano molto meticolosi (mi premevano da tutte le parti, mentre avrebbero dovuto stare a distanza e tenermi sotto tiro mentre mi perquisivano e, dopo avermi disarmato, mi ammanettavano con le mani sulla schiena e non davanti al corpo) però fra pochi secondi mi avrebbero perquisito.

Decisi di non concedere loro quei pochi secondi. Alzai di scatto le mani ammanettate, afferrai per la camicia il grassoccio capitano e lo gettai all’indietro contro i due civili. Vi fu un momento di grida e di spintoni, durante il quale mi girai rapidamente, tirai con tutte le mie forze un calcio nelle palle al soldato più vicino e afferrai il secondo per il fucile ancora a tracolla. Il soldato lanciò un grido e afferrò l’arma, usando tutt’e due le mani, proprio mentre io tiravo in basso la cinghia. Il soldato seguì l’arma, batté una testata contro la parete e cadde subito a sedere. L’altro, quello che avevo colpito nelle palle, era ancora piegato in due e con una mano si teneva l’inguine; ma allungò l’altra mano e mi lacerò il maglione dal collo alla cintura, stappandomi anche gli occhiali a visore notturno. Gli mollai un calcio alla gola e lui finì lungo e disteso.

Intanto il tenente aveva sguainato la pistola a fléchettes, ma capì che, se mi avesse sparato, avrebbe ucciso anche i due soldati alle mie spalle e allora col calcio dell’arma mi colpì in testa.

Le pistole a flécbettes non sono poi molto pesanti, ma quella mi fece vedere le stelle per un momento e mi lacerò il cuoio capelluto. Mi rese anche rabbioso.

Mi girai e col pugno colpii in faccia il tenente. Lui girò su se stesso, arretrò contro la ringhiera, alta circa un metro, agitando le braccia, e proseguì sullo slancio. Per un secondo tutti si bloccarono, impietriti, tranne io: infatti, mentre ancora si vedevano le piante dei piedi del tenente passare sopra la ringhiera, mi ero girato, avevo scavalcato il soldato disteso per terra, avevo spalancato la porta schermata ed ero entrato di corsa nella sala mensa. Gli uomini si agitavano da tutte le parti, per la maggior parte verso la porta e le finestre, per scoprire la causa del trambusto; ma mi fecero largo, mentre a testa bassa li schivavo con l’azione travolgente del giocatore di rugby che porta la palla in meta.

Alle mie spalle udii il rumore della porta spalancata e il grido, del capitano o di un soldato: — Giù! Fuori dei piedi! Attenti!

Mi sentii ingobbire le scapole al pensiero di migliaia di flécbettes in volo verso di me, ma non rallentai, balzai sopra un tavolo, con i polsi sempre ammanettati mi coprii il viso e mi lanciai contro la finestra, assorbendo con la spalla destra la parte peggiore dell’urto.

Mentre ero in volo, pensai per un attimo che se la finestra fosse stata di perspex o di vetro rinforzato la mia avventura si sarebbe conclusa in una perfetta farsa: sarei rimbalzato nella sala mensa e sarei stato ucciso o catturato, a scelta dei soldati. Sarebbe stato logico, per una piattaforma in mare aperto, utilizzare materiali infrangibili anziché vetro. Ma quando, alcuni minuti prima, l’avevo toccato, il pannello della finestra mi era parso davvero di vetro.

Era vetro.

Atterrai sul tetto di lamiera ondulata e continuai a rotolare verso l’esterno, mentre schegge di vetro volavano e scricchiolavano intorno a me e sotto di me. Trascinavo parte dell’intelaiatura (il giubbotto e il maglione a brandelli erano trapunti di schegge di legno e di vetro) ma non rallentai per liberarmene. Alla fine del tetto mi si presentò una scelta: l’istinto voleva che continuassi a rotolare oltre il bordo per sparire alla vista prima che i fucilieri aprissero il fuoco, augurandomi che là sotto ci fosse un’altra passerella; la logica voleva che mi fermassi a controllare, prima di rotolare giù; la memoria mi suggeriva che non c’erano passerelle lungo quel bordo della piattaforma.

Scelsi un compromesso: rotolai fino al bordo del tetto, ma mi afferrai alla sporgenza e scrutai di sotto prima che gli stivali scivolassero e le dita perdessero la presa. Non c’erano ponti né piattaforme, di sotto: solo venti metri d’aria dai miei piedi alle onde viola. Le lune si levavano e il mare pareva vivo per il riflesso luminoso.

Mi alzai sulle braccia quanto bastava a dare un’occhiata alla finestra da cui ero fuggito; vidi i tiratori agitarsi e abbassai la testa proprio mentre uno di loro sparava. Il nugolo di fléchettes passò alto di poco, mancando di qualche centimetro le mie dita; trasalii nell’udire il ronzio di migliaia d’aghi d’acciaio che mi sorvolavano. Sotto di me non c’era un ponte, ma vedevo un tubo che correva in orizzontale lungo la fiancata del modulo. Aveva un diametro di sei o otto centimetri. C’era pochissimo spazio fra il tubo e la parete del modulo, forse appena sufficiente a passarci le dita e aggrapparsi… se il tubo non si fosse spezzato sotto il peso, se l’urto non mi avesse slogato la spalla, se le manette non mi avessero ostacolato, se… Non rimasi lì a pensare: mi lasciai cadere. L’avambraccio e il ferro delle manette sbatterono contro il tubo e rischiai di rimbalzare via, ma ero pronto a serrare le dita e ci riuscii; per un attimo le dita scivolarono, ma poi ressero il peso.

La seconda scarica di fléchettes disintegrò la sporgenza del tetto e perforò in centinaia di punti la parete esterna. Schegge e frammenti d’acciaio piovvero nel chiaro delle lune, mentre più in alto gli uomini gridavano e imprecavano. Udii rumore di passi sul tetto.

Mi spostai verso sinistra, dondolando, più in fretta che potevo. Dall’angolo del modulo sporgeva un ponte, almeno tre metri più in basso e quattro o cinque verso est. L’avanzata era lenta da impazzire. Le spalle protestavano per lo sforzo, le dita mi s’intorpidivano per mancanza di circolazione. Sentivo nei capelli e nel cuoio capelluto schegge di vetro: il sangue mi colava negli occhi. I soldati sarebbero giunti al bordo del tetto prima che io arrivassi a trovarmi sospeso sopra la piattaforma.

A un tratto ci furono imprecazioni e grida: una sezione del tetto, nel punto da dove poco prima penzolavo, si era incavata. Evidentemente la scarica di fléchettes aveva indebolito la struttura e ora il peso dei soldati la faceva cedere. Udii i soldati ritirarsi in fretta, imprecando e cercando altre vie per arrivare al bordo.

L’indugio mi concesse otto o dieci secondi in più, ma mi bastarono per arrivare al termine del tubo, per dondolare una volta, due, e mollare la presa alla terza. Caddi pesantemente sulla piattaforma, rotolai e andai a sbattere contro la ringhiera, con tanta violenza da restare senza fiato.

Ma non potevo fermarmi a riprendere fiato. Mi mossi in fretta e rotolai verso la parte più buia del ponte, sotto il modulo. Almeno due fucili a fléchettes fecero fuoco: una scarica andò a vuoto e fece ribollire l’acqua quindici metri più in basso, l’altra colpì l’estremità del ponte, col rumore di cento sparachiodi in funzione nello stesso istante. Mi tirai in piedi e mi misi a correre, scansando basse travi e cercando di scorgere qualcosa in quel labirinto d’ombre. Da qualche parte, sopra di me, risuonarono dei passi. I soldati avevano il vantaggio di conoscere la disposizione dei ponti e delle scale, ma solo io sapevo dov’ero diretto.

Ero diretto al ponte più basso dell’estremità est, dove avevo lasciato il tappeto; ma il ponte di servizio sul quale mi trovavo portava a una lunga passerella che correva a nord e a sud. Passai sotto la piattaforma principale finché non ritenni d’essere in pari col ponte est; allora montai a cavalcioni di una trave di sostegno larga circa sei centimetri e, agitando a destra e a sinistra le mani ammanettate per tenermi in equilibrio, attraversai una sezione scoperta, fino al successivo pilone verticale. Ripetei la manovra, deviando a nord e a sud quando la trave terminava, ma trovandone sempre un’altra che andava a est.

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