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Soppesai uno dei braccialetti. Non arrivava a un grammo. Ed era del tutto inutile. Sapevo, dai discorsi dei cacciatori giunti da altri pianeti, che alcuni mondi avevano di nuovo una primitiva sfera dati (Vettore Rinascimento era uno di essi, pensavo) ma i relè astrotel erano inutili da almeno tre secoli. L’astrotel, la banda comune di trasmissione FTL, cioè a velocità superiore a quella della luce, dalla quale a suo tempo l’Egemonia dipendeva, taceva fin dalla Caduta. Rimisi il comlog nel suo astuccio foderato di velluto.

«Potrebbe esserle utile portarlo con sé, nel caso dovesse lasciarmi per qualche tempo» disse la nave.

Istintivamente mi guardai alle spalle. — Perché? — domandai poi.

«Dati» rispose la nave. «Potrei scaricare il mio archivio base in uno, o più, di quelli. E lei vi accederebbe a piacimento.»

Mi mordicchiai il labbro e cercai d’immaginare a cosa potesse servirmi avere al polso la confusa massa di dati della nave. Poi mi tornarono in mente le parole di Nonna: La conoscenza va sempre tenuta da conto, Raul. Nel tentativo di capire l’universo è seconda solo all’amore e all’onestà.

— Buona idea — dissi, agganciandomi al polso il sottile nastro d’argento. — Quando puoi scaricare le tue banche dati?

«L’ho appena fatto» rispose la nave.

Prima d’arrivare nel sistema di Parvati, avevo passato attentamente in rassegna il contenuto dell’armadio delle armi: non c’era niente che avrebbe rallentato d’un secondo una Guardia Svizzera. Ora esaminai meglio il contenuto dell’armadio, tenendo in mente scopi diversi.

È strano come le vecchie cose sembrino vecchie. Le tute spaziali, le aerociclette, le lampade a mano… quasi tutto, a bordo della nave, pareva antiquato, fuori moda. Non c’erano dermotute, per esempio; e le dimensioni, la concezione tecnica e il colore di ogni oggetto parevano tolti di peso da un libro di storia. Ma le armi erano una faccenda un po’ diversa. Erano vecchie, certo, ma ben note al mio occhio e alla mia mano.

Era evidente che il Console era stato un cacciatore: in una rastrelliera c’erano sei doppiette, ben oliate e conservate secondo le regole. Avrei potuto prenderne una a caso, andare in palude e riempire d’anatre il carniere. I modelli variavano, da un piccolo .310 a canne sovrapposte a una massiccia doppietta cal. 16. Scelsi un antico, ma perfettamente conservato, cal. 16 a pompa con vere e proprie cartucce e lo misi da parte nel corridoio.

Le carabine e le armi a energia erano molto belle. Di sicuro il Console era stato un collezionista, perché quegli esemplari erano opere d’arte, oltre che strumenti per uccidere: intarsi nel calcio, acciaio brunito, impugnatura anatomica, equilibrio perfetto. Nel millennio e passa che ci separava dal XX secolo, quando le armi individuali erano prodotte in serie ed erano incredibilmente micidiali, poco costose e brutte come fermaporte metallici, alcuni di noi (io e il Console, fra quei pochi) avevamo imparato a dar valore alle belle armi da fuoco fabbricate a mano o prodotte in serie limitata. Nella rastrelliera c’erano fucili da caccia di grosso calibro, carabine al plasma (non è un termine improprio, come avevo imparato durante l’addestramento nella Guardia Nazionale: quando usciva dalla bocca da fuoco, il proiettile era ovviamente una scarica di pura energia, ma beneficiava della rigatura della canna), due carabine dal calcio riccamente intagliato, a energia laser (questo sì che era un termine improprio, un manufatto linguistico, più che progettuale) non molto diverse da quella con cui il signor Herrig aveva ammazzato la mia Izzy, un fucile d’assalto nero opaco della FORCE simile a quello che il colonnello Fedmahn Kassad aveva portato su Hyperion tre secoli fa, un’arma al plasma di calibro gigante che di certo il Console aveva usato per cacciare dinosauri su chissà quale pianeta, e tre pistole. Non c’erano neuroverghe. Ne fui contento: li odiavo, quei maledetti aggeggi.

Tolsi dalla rastrelliera una carabina al plasma, il fucile d’assalto della FORCE e le pistole, per esaminarli più accuratamente.

Il fucile della FORCE era brutto, faceva a pugni con i criteri che avevano ispirato la collezione del Console; ma capii perché vi era stato compreso. Era un ordigno multiuso: carabina al plasma da 18 mm., arma a energia coerente a raggio variabile, lanciagranate, schermo protettivo reae (raggi d’elettroni ad alta energia), lancia-fléchettes, accecatore a banda ampia, lancia-dardi a ricerca di fonte di calore-diavolo, un fucile d’assalto della FORCE farebbe qualsiasi cosa, tranne che cucinare il rancio del soldato. (Ma, sul campo, il raggio variabile, tenuto al minimo, di solito fa anche questo.)

Prima d’entrare nel sistema di Parvati, avevo accarezzato l’idea di accogliere con il fucile della FORCE le Guardie Svizzere all’abbordaggio, ma le moderne tute da combattimento si sarebbero fatte gioco di qualsiasi cosa quel fucile potesse scagliare; e poi, a essere onesti, avevo temuto che una simile accoglienza facesse inferocire i soldati della Pax.

Ora esaminai più attentamente il fucile della FORCE: un’arma così versatile poteva rivelarsi utile, se ci fossimo allontanati troppo dalla nave e se avessi dovuto vedermela con un nemico un po’ meno moderno… che so, un cavernicolo, un caccia a reazione, un poveraccio equipaggiato come noi della Guardia Nazionale di Hyperion. Alla fine rinunciai a prenderlo: pesava in maniera proibitiva per chi non avesse indosso la vecchia tuta esoenergizzata della FORCE, non aveva munizioni per il lancia-fléchettes, il lancia-granate e per lo schermo reae; inoltre era ormai impossibile trovare le pulsocartucce da 18 mm e per sfruttare le opzioni a energia mi sarei dovuto trovare nei pressi della nave o di qualche altra potente fonte energetica. Rimisi al suo posto il fucile d’assalto, pensando in quel momento che forse era appartenuto davvero al leggendario colonnello Kassad. Non rientrava nello stile della collezione del Console, ma quest’ultimo aveva conosciuto Kassad e forse aveva conservato il fucile per ragioni affettive.

Domandai alla nave, ma la nave non ricordava. — Ma guarda che strano! — borbottai.

Le pistole erano più antiche del fucile d’assalto, ma più promettenti. Ognuna era un pezzo da collezione, ma usava caricatori ancora in commercio… su Hyperion, almeno. Non potevo esserne sicuro, per i pianeti che avremmo visitato. La più grossa era un’automatica Steiner-Ginn Penetrator cal. 60. Un’arma di tutto rispetto, ma pesante: gli stampocaricatori pesavano quasi quanto la pistola, progettata inoltre per consumare munizioni a ritmo prodigioso. La rimisi a posto. Le altre due lasciavano ben sperare: una pistola a fléchettes, piccola, leggera, molto maneggevole, che poteva essere la bisnonna di quella con cui il signor Herrig aveva tentato di uccidermi. Era fornita di parecchie centinaia di minuscoli e lucenti ago-ovuli (il caricatore ne conteneva cinque per volta) e ciascun ovulo conteneva varie migliaia di fléchettes. Una buona arma, per chi non fosse un gran tiratore.

L’ultima pistola mi stupì. Era conservata nella relativa fondina di cuoio oliato. La estrassi con le dita che tremavano un poco. La conoscevo solo grazie ai libri antichi: una rivoltella .45 semiautomatica, con veri proiettili… quelli incamiciati d’ottone, non quelli prodotti da uno stampocaricatore che li crea man mano che la pistola spara… impugnatura zigrinata, mirino metallico, acciaio brunito. Rigirai la pistola. Poteva avere benissimo più di mille anni.

Esaminai il cofanetto dove era tenuta: cinque scatole di proiettili cal. 45, ossia alcune centinaia di colpi. Pensai che anche quelli erano di sicuro molto antichi, ma vidi la targhetta di fabbrica: una ditta di Lusus. Circa tre secoli.

Mi venne in mente che, secondo i Canti, Brawne Lamia portava con sé un’antiquata .45. Più tardi lo domandai a Aenea e lei mi disse di non avere mai visto una pistola in mano a sua madre.

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