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Il secondo giorno, mentre eravamo in biblioteca, Aenea suggerì di "sperimentare" il viaggio spaziale. Le domandai come avremmo potuto sperimentarlo più di quanto già non facessimo (pensavo ai frattali Hawking), ma lei si limitò a ridere e chiese alla nave di annullare il campo di contenimento interno. All’istante ci ritrovammo privi di peso.

Da bambino, sognavo di trovarmi a g-zero. Nuotando nel salatissimo mare Meridionale, da soldato, chiudevo gli occhi, mi tenevo a galla senza sforzo e mi domandavo se ai vecchi tempi i viaggi spaziali dessero una sensazione analoga.

Vi garantisco che è del tutto diversa.

L’assenza totale della forza di gravità, soprattutto se si verifica all’improvviso, come accadde a noi per la richiesta di Aenea, è terrificante. In parole semplici, ci si sente cadere.

Questa, almeno, è la prima impressione.

M’aggrappai alla sedia, ma anche la sedia cadeva. Era l’identica sensazione che avremmo provato se ci fossimo trovati in una delle grandi cabine di teleferica della Briglia e il cavo si fosse spezzato. Il mio orecchio medio protestò, cercando una linea d’orizzonte che fosse giusta. Non ce n’erano.

A. Bettik sbucò scalciando da dove si trovava in quel momento, di sotto, e disse con calma: — C’è qualche guaio?

— No — rise Aenea — stiamo solo provando il viaggio spaziale per un poco.

A. Bettik annuì e si calò a capofitto nel pozzo della scala a chiocciola, tornando ai suoi affari, quali che fossero.

Aenea lo seguì al pozzo delle scale, scalciando fino all’apertura centrale. — Vedi? — mi disse. — Questa scala diventa un pozzo di caduta, quando la nave è a g-zero. Proprio come nelle vecchie spin-navi.

— Non è pericoloso? — domandai, cambiando presa, dallo schienale di una sedia a uno scaffale. Per la prima volta notai gli elastici che tenevano a posto i libri. Ogni altra cosa che non fosse fissata… il libro che avevo lasciato sul tavolo, le sedie intorno al tavolo, un maglione che avevo messo sulla spalliera di un’altra sedia, pezzi dell’arancia che mangiavo un momento prima… galleggiava.

— Pericoloso, no — disse Aenea. — Confusionario e disordinato. La prossima volta mettiamo tutto in ordine, prima d’annullare il campo interno.

— Ma il campo non è… importante?

Aenea galleggiava a testa in giù, dal mio punto di vista. Al mio orecchio interno la cosa piaceva ancora meno del resto. — Il campo evita che siamo schiacciati e lanciati contro le pareti esterne, quando ci moviamo nello spazio normale — disse Aenea, tirandosi fino al centro del pozzo di venti metri, grazie alla presa sulla ringhiera della scala a chiocciola. — Ma nello spazio C-più non possiamo accelerare né rallentare, perciò… ecco che andiamo! — Si aggrappò all’asta che correva per tutta la nave al centro di quello che era stato il pozzo delle scale e si catapultò fuori vista, a testa in giù.

— Oddio — mormorai; mi diedi una spinta, mi staccai dalla libreria, rimbalzai contro la paratia opposta e seguii Aenea giù nel pozzo centrale.

Per l’ora seguente giocammo in g-zero: a chiapparello g-zero, a nascondino g-zero (scoprimmo che ci si può nascondere nei luoghi più impensati, senza le restrizioni della forza di gravità) a calcio g-zero (con uno dei caschi spaziali di plastica presi da un armadio nel ponte magazzino/corridoio) e perfino a lotta libera g-zero, più difficile di quanto non avessi immaginato. Il mio primo tentativo d’afferrare Aenea mandò tutt’e due a rotolare e sbattere per il lungo, il largo e l’alto del ponte di crio-fuga.

Alla fine, stanca e sudata (il sudore galleggiava intorno alla persona finché questa non si muoveva o finché non era spostato da un filo d’aria dei ventilatori) Aenea ordinò alla nave di aprire la loggia (lanciai un grido di paura, nell’udire l’ordine, ma la nave mi ricordò con calma che il campo esterno era intatto) e ci librammo sopra lo Steinway inchiavardato al pavimento, fino alla balaustra e più in là, nella "terra di nessuno" fra la nave e il campo; ci allontanammo di dieci metri e ci girammo a guardare la nave stessa, circondata dalle esplosioni di frattali, brillante nel gelido splendore da fuochi d’artificio, mentre intorno a noi lo spazio Hawking si ripiegava e si contraeva con la frequenza di alcuni miliardi di volte al secondo.

Finalmente tornammo, scalciando a nuoto (impresa difficile e goffa, se non c’è niente con cui darsi la spinta) avvisammo via intercom A. Bettik di posare i piedi sul pavimento e dicemmo alla nave di ripristinare il campo interno a g-uno. Ridacchiammo tutt’e due come sciocchi, mentre maglioni, panini, sedie, libri e varie sferette d’acqua uscita da un bicchiere rimasto sul tavolo cadevano rumorosamente sul tappeto.

Quello stesso giorno, o meglio, notte, perché la nave aveva abbassato le luci per il periodo di sonno, scesi la scala a chiocciola fino al livello della piazzola olografica per prepararmi uno spuntino notturno e sentii dei rumori soffocati provenire dall’apertura del sottostante ponte di crio-fuga.

— Aenea? — chiamai sottovoce. Non ebbi risposta. Andai alla scala e guardai il buio pozzo centrale, sorridendo al ricordo dei buffi giochi a mezz’aria di qualche ora prima. — A. Bettik?

Ancora non ebbi risposta, ma i rumori soffocati continuarono. Rimpiansi di non avere una torcia elettrica e scesi, in calzini, la scala.

Un debole bagliore proveniva dai monitor di crio-fuga posti sopra le culle nelle loro nicchie. Il rumore soffocato proveniva dall’angolino di Aenea. La bambina mi dava la schiena. Si era tirata sulle spalle la coperta, ma scorgevo il colletto della camicia del Console di cui Aenea si era appropriata per usarla come camicia da notte. Mi avvicinai, senza fare rumore perché ero scalzo sul morbido pavimento, e m’inginocchiai accanto alla culla. — Aenea? — dissi. La bambina piangeva, cercava chiaramente di soffocare i singhiozzi.

Le toccai la spalla e Aenea finalmente si girò. Anche alla fioca luce delle apparecchiature vidi che aveva pianto da qualche tempo: aveva occhi arrossati e gonfi, guance rigate di lacrime.

— Cosa c’è, ragazzina? — mormorai. Ci trovavamo due ponti sopra la sala motori, dove A. Bettik dormiva nell’amaca di fortuna, ma il pozzo della scala era aperto.

Per un momento Aenea non rispose, poi rallentò i singhiozzi e infine smise di piangere. — Scusami — disse allora.

— Va tutto bene. Dimmi cosa non va.

— Dammi un fazzolettino e te lo dico.

Frugai nelle tasche della vecchia vestaglia del Console. Non avevo fazzolettini di carta, ma reggevo ancora il tovagliolo che mi era servito per tenere la focaccia che stavo mangiando di sopra. Le diedi il tovagliolo.

— Grazie — disse Aenea. Si soffiò il naso. — Per fortuna non siamo più a g-zero — continuò, con voce soffocata dal tovagliolo. — Ci sarebbe moccio galleggiante dappertutto.

Sorrisi e le strinsi la spalla. — Cosa c’è che non va, Aenea?

Emise un rumore soffocato che riconobbi come un tentativo di risatina. — Tutto, non va — disse. — Tutto sbagliato. Ho paura. Tutto ciò che so del futuro mi spaventa a morte. Non so come sgusceremo fra i tipi della Pax che saranno lì ad aspettarci fra qualche giorno. Ho nostalgia. Non potrò mai tornare e tutti coloro che conoscevo, a parte zio Martin, sono svaniti per sempre. Però sento più di tutto la mancanza di mia madre.

Le strinsi la spalla. Brawne Lamia, sua madre, era leggenda… una donna vissuta e morta due secoli e mezzo fa. Le sue ossa si erano già ridotte in polvere, dovunque fossero state sepolte. Per la bambina, la morte della madre risaliva solo a due settimane prima.

— Mi dispiace — mormorai e le strinsi ancora la spalla, sentendo sotto le dita la consistenza della vecchia camicia del Console. — Andrà tutto bene, vedrai.

Aenea annuì e mi prese la mano. La sua era ancora umida. Notai quanto fosse piccola, nella mia.

— Vieni con me in cambusa a prendere una tazza di latte e una fetta di torta di radice di chalmaì — mormorai. — È buona.

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