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Sparì anche lo spazio. Per spazio intendo la scena che guardavo meno d’un secondo prima: il vivido sole di Hyperion, il disco sempre più piccolo del pianeta stesso, il bagliore lungo lo scafo della nave, le poche stelle visibili in quel bagliore, perfino la colonna di fiamma azzurra sulla quale stavamo appollaiati… tutto sparito. Al loro posto c’era… è difficile, descriverlo.

La nave era sempre lì, incombeva "sopra e sotto" di noi… la loggia dove ci trovavamo pareva ancora solida… ma pareva che non ci fosse nessuna luce a colpirla. Mi rendo conto, mentre lo scrivo, di quanto suoni assurdo… dev’esserci luce riflessa, perché una cosa sia visibile… ma l’effetto fu proprio questo, come se una parte dei miei occhi avesse smesso di funzionare: anche se gli occhi registravano la forma e la massa della nave, la luce pareva mancare.

Al di là della nave, l’universo si era contratto in una sfera azzurra verso prua e in una sfera rossa dietro le pinne caudali. Avevo conoscenze scientifiche sufficienti per aspettarmi un effetto Doppler, ma quello era un falso effetto, perché fino al momento della traslazione C-più non avevamo affatto una velocità vicina a quella della luce e ora eravamo molto al di là di essa, nella piegatura Hawking. Nondimeno, i cerchi di luce azzurra e rossa (se guardavo con attenzione, distinguevo le stelle raggruppate in tutt’e due le sfere) ora migravano più lontano a prua e a poppa, si riducevano a minuscoli puntini di colore. Tra l’uno e l’altro, a riempire l’esteso campo visivo, c’era… niente. Con "niente" non intendo oscurità né tenebra. Intendo il vuoto. Intendo il senso di nauseante assenza di vista che si prova quando si cerca di guardare in un punto cieco. Intendo un nulla così intenso che la vertigine da esso indotta si mutò quasi all’istante in nausea dentro di me e mi straziò l’organismo, con la stessa violenza di pochi istanti prima, quando mi ero sentito rivoltato come un guanto.

— Dio mio! — riuscii a dire, afferrandomi con forza alla balaustra e serrando gli occhi. Non servì a niente. Il vuoto era anche lì. In quel momento capii per quale motivo i viaggiatori interstellari sceglievano sempre la crio-fuga.

Per quanto possa sembrare incredibile, Aenea continuò a suonare il pianoforte. Le note erano chiare, cristalline, come se non fossero modificate da nessun mezzo di trasmissione. Anche con gli occhi chiusi, vedevo A. Bettik fermo accanto alla porta, viso dalla pelle azzurra rivolto al vuoto. No, mi accorsi, non era azzurro… lì i colori non esistevano. Né esistevano il nero, il bianco, il grigio. Mi domandai se le persone cieche dalla nascita sognavano, in un analogo modo pazzesco, luci e colori.

«Compensazione in corso» disse la nave; e la sua voce aveva la stessa caratteristica cristallina delle note del pianoforte.

All’improvviso il vuoto crollò su se stesso, la vista tornò e le sfere azzurra e rossa ricomparvero a prua e a poppa. Nel giro di qualche secondo la sfera azzurra di prua migrò lungo la nave come una ciambella che scorra lungo uno stilo, e si mescolò alla sfera rossa di poppa: dalla sfera di prua esplosero senza preavviso variopinte geometrie simili a creature volanti che emergano da un uovo. Dico "variopinte geometrie", ma l’espressione non illustra per niente la complessa realtà: figure generate da frattali pulsavano e s’attoreigliavano e si torcevano in quello che era stato il vuoto. Forme a spirale, dentellate dalle proprie sub-geometrie, s’arricciavano su se stesse, generavano forme più piccole della medesima luminosità color blu cobalto e rosso sangue. Ovoidi gialli divennero esplosioni di luce simili a stelle pulsar. Eliche color malva e indaco, che parevano il DNA dell’universo, passarono a spirale davanti a noi. Udivo quei colori come tuono remoto, come martellio di frangenti appena al di là dell’orizzonte.

M’accorsi d’essere a bocca aperta. Girai le spalle alla balaustra e cercai di fissare la bambina e l’androide. I colori dell’universo di frattali giocavano su di loro. Aenea suonava ancora in sordina e continuò a muovere le dita sulla tastiera anche quando alzò gli occhi verso di me e verso il cielo di frattali alle mie spalle.

— Forse sarebbe meglio rientrare — dissi; udii ogni singola parola restare sospesa a mezz’aria, staccata dalle altre, come una serie di ghiaccioli lungo un ramo.

— Affascinante — disse A. Bettik, sempre a braccia conserte, sguardo perduto nel tunnel di disegni che ci attorniava. La sua pelle era di nuovo azzurra.

Aenea smise di suonare. Forse per la prima volta intuì il mio senso di vertigine e il mio terrore; si alzò, mi prese per mano e mi guidò nella nave. La loggia ci seguì, ritraendosi. Lo scafo riprese la sua solita forma. Fui di nuovo in grado di respirare.

— Abbiamo sei giorni — disse la bambina. Eravamo seduti nella piazzola olografica perché lì c’erano i comodi cuscini. Avevamo mangiato e A. Bettik ci aveva portato bibite alla frutta prese dal frigorifero. Le mani mi tremavano solo un poco, mentre ce ne stavamo seduti a parlare.

«Sei giorni, nove ore e ventisette minuti» precisò la nave.

Aenea alzò lo sguardo verso la paratia. — Nave, resta pure in silenzio per un poco, a meno che tu non debba dirci qualcosa d’importanza vitale o che noi non ti rivolgiamo una domanda.

«Sì, signora… Aenea» disse la nave.

— Sei giorni — ripeté Aenea. — Dobbiamo prepararci.

Sorseggiai la bibita. — Prepararci a cosa?

— Credo che saranno lì ad aspettarci. Dobbiamo escogitare un modo per attraversare il sistema di Parvati e raggiungere Vettore Rinascimento senza che loro ci blocchino.

Guardai Aenea. Aveva l’aria stanca. I capelli erano ancora in disordine per la doccia. Con tutte le chiacchiere dei Canti su Colei Che Insegna, mi ero aspettato qualcosa di straordinario… un giovane messia in tunica, un prodigio che parlasse per enigmi… ma l’unica cosa straordinaria in quella ragazzina era la profonda chiarezza dei suoi occhi scuri. — Come potrebbero aspettarci? — replicai. — L’astrotel non funziona da secoli. Le navi della Pax alle nostre spalle non possono chiamare a destinazione come si faceva ai tuoi tempi.

Aenea scosse la testa. — L’astrotel aveva smesso di funzionare già prima che io nascessi. Non dimenticare che mia madre mi aveva in grembo durante la Caduta. — Guardò A. Bettik, che beveva succo di frutta, ma non si era seduto. — Non mi ricordo di te, mi spiace — proseguì Aenea. — Come ho già detto, solevo fare visita alla Città dei Poeti ed ero convinta di conoscere tutti gli androidi.

A. Bettik le rivolse un leggero inchino. — Non ha ragione di ricordarsi di me, signorina Aenea. Avevo lasciato la Città dei Poeti ancora prima del pellegrinaggio di sua madre. A quel tempo, con i miei fratelli lavoravo lungo il fiume Hoolie e nel mar d’Erba. Dopo la Caduta, abbiamo… lasciato il servizio… e siamo vissuti da soli in luoghi differenti.

— Capisco. Erano tutti impazziti, dopo la Caduta. Mi ricordo. Gli androidi sarebbero stati in pericolo, a ovest della Briglia.

Incrociai il suo sguardo. — No, sul serio, come potrebbero aspettarci a Parvati? Non possono precederei, perché abbiamo effettuato per primi la traslazione alla velocità quantica; al massimo, possono emergere nel sistema di Parvati un paio d’ore dopo di noi.

— Già — disse Aenea. — Ma penso ancora che, non so come, saranno lì ad aspettarci. Dobbiamo escogitare un modo affinchè questa nave disarmata possa battere in velocità o in rapidità di manovra una nave da guerra.

Parlammo ancora per parecchi minuti, ma nessuno di noi, neppure la nave, quando la interrogammo, ebbe un’idea brillante. Mentre parlavamo, osservavo la bambina: labbra atteggiate a un lieve sorriso, quando rifletteva; una ruga appena accennata sulla fronte, quando parlava con convinzione; voce pacata. Capivo perché Martin Sileno volesse che fosse protetta.

— Mi domando come mai il vecchio poeta non ci abbia chiamati, prima che lasciassimo il sistema — dissi. — Di sicuro avrà avuto voglia di parlarti.

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