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Anche in tutta quella confusione, non importa da che diavolo causata, non c’è modo che le navi torcia in orbita o le batterie antiaeree a terra manchino un oggetto della grandezza di una nave, se si trattiene al suolo più dei trenta secondi che ci siamo concessi. La missione di salvataggio è andata a farsi fottere.

La terra trema e un rimbombo riempie la Valle. O è esploso qualcosa di molto grosso, un deposito di munizioni come minimo, oppure è precipitato un velivolo più grande degli skimmer. Un tempestoso bagliore rossastro illumina l’intera parte nord della Valle, fiori di fiamma visibili anche attraverso la tempesta di sabbia. In risalto contro quel bagliore scorgo decine di figure corazzate in fuga, che sparano, volano in aria, cadono. C’è una figura più piccola delle altre, senza corazza. Il gigante uncinato è lì accanto. La figura più piccola, ancora stagliata contro l’infuocato bagliore di pura distruzione, assale il gigante, coi piccoli pugni colpisce barbi e punte.

— Merda! — Striscio verso il tappeto hawking, non lo trovo, mi sfrego gli occhi per togliere la sabbia, striscio in cerchio, sento della stoffa sotto la destra. Nei secondi in cui sono rotolato lontano, il tappeto è stato quasi sepolto. Scavo come un cane rabbioso per dissotterrarlo, porto alla luce i disegni di volo, li attivo e lancio il tappeto verso il bagliore che si affievolisce. Le due figure non sono visibili, ma ho avuto la presenza di spirito di dare un’occhiata alla bussola. Due scariche di lancia al plasma bruciano l’aria… una, qualche centimetro sopra il mio corpo disteso; l’altra, qualche millimetro sotto il tappeto.

— Merda! Maledizione! — grido a nessuno in particolare.

Il Padre Capitano de Soya è solo in parte cosciente, mentre sobbalza sulla spalla corazzata del sergente Gregorius. Intuisce vagamente altre sagome in corsa con loro nella tempesta di sabbia, sagome che di tanto in tanto lanciano scariche al plasma contro bersagli invisibili, e si domanda se siano i resti della squadra di Gregorius. Mentre perde e riprende conoscenza, ha il disperato desiderio di rivedere la bambina, di parlare con lei.

Gregorius rischia di sbattere contro qualcosa, si ferma, ordina alla squadra di serrare le fila. Un veicolo corazzato, uno scarabeo, privo dello schermo di mimetizzazione, sta di traverso sopra un masso. Manca del cingolo sinistro, le canne dei minicannoni posteriori sono fuse come candele nel fuoco. L’occhio-bolla destro è in frantumi, lascia un vuoto.

— Qua — ansima Gregorius. Con delicatezza cala nella bolla il Padre Capitano de Soya. L’attimo dopo, vi s’infila e con il raggio torcia della lancia a energia illumina l’interno dello scarabeo. Il sedile di guida pare spruzzato di vernice rossa. Le paratie posteriori paiono schizzate di colori a caso, un po’ come l’assurda "arte astratta" pre-Egira che de Soya ha avuto occasione di vedere in un museo. Solo che questa tela di metallo è impiastrata di parti di corpo umano.

Il sergente Gregorius tira de Soya più all’interno dello scarabeo inclinato sul fianco e lo sistema contro la paratia inferiore. Altre due figure in tuta s’infilano nella bolla frantumata.

De Soya si pulisce gli occhi sporchi di sangue e di sabbia e dice: — Sto bene. — Voleva usare un tono normale, ma la voce è debole, quasi infantile.

— Signorsì — ringhia Gregorius, mentre stacca dal cinturone il medipac di pronto soccorso.

— Non occorre — dice debolmente de Soya. — La tuta… — Tutte le tute da guerra hanno l’incamiciatura medica sigillante e semi-intelligente. De Soya è certo che la tuta si è già presa cura dei trascurabili taglietti e ferite. Ma ora abbassa lo sguardo.

Ha la gamba sinistra quasi tranciata. La tuta da guerra, onnipolimera, antiurto, resistente alle scariche d’energia, pende a brandelli come la gomma squarciata di uno pneumatico da poco prezzo. De Soya scorge il bianco del femore. La tuta si è stretta in un rozzo laccio emostatico intorno alla coscia, gli ha salvato la vita, ma ci sono cinque o sei gravi perforazioni nella corazza del torace e le spie luminose del display medico sul petto brillano di luce rossa.

— Oh, Dio — sospira il Padre Capitano de Soya. È una preghiera.

— Tutto a posto — dice il sergente Gregorius, stringendo intorno alla coscia un secondo laccio emostatico. — Ora la portiamo da un medico, signore, e poi nella nave ospedale. — Guarda le due figure in armatura, accosciate dietro i sedili anteriori, esauste. — Kee? Rettig?

— Sì, sergente? — La più bassa delle due figure alza gli occhi.

— Mellick e Ott?

— Morti, sergente. Quella cosa li ha beccati alla Sfinge.

— Resta in rete — dice Gregorius e torna a occuparsi di de Soya. Si toglie il guanto e tocca una delle perforazioni più grosse. — Fa male, signore?

De Soya scuote la testa. Non sente il tocco.

— Bene — dice il sergente, ma pare dispiaciuto. Comincia a chiamare, sulla rete tattica.

— La bambina — dice il Padre Capitano de Soya. — Dobbiamo trovare la bambina.

— Sissignore — dice Gregorius, ma continua a chiamare su diversi canali. Ora de Soya ascolta e ode la confusione di voci.

«Attento! Cristo! Sta tornando…»

«San Bonaventura! San Bonaventura! Siete aperti al vuoto! Ripeto, siete aperti al…»

«Scorpione Uno-Nove a ogni controllore… Cristo… Scorpione Uno-Nove, motore sinistro fottuto… non vediamo la Valle… ci spostiamo…»

«Jamie! Jamie! Dio mio…»

«Via dalla rete! Maledizione, mantenere la disciplina radio! Via dalla fottuta rete!»

«Padre Nostro che sei nei cieli, sia santificato il Tuo nome…»

«Che cazzo… oh, merda… quel fottuto l’ho beccato, ma… merda…»

«Diversi velivoli non identificati… ripeto… diversi velivoli non identificati… nessuna reazione al fuoco di controllo… sono parecchi…» Questa voce si muta di colpo in urla.

«Comando Uno, rispondete. Comando Uno, rispondete!»

Sentendo la coscienza scorrere via come il sangue che si raccoglie sotto la sua gamba maciullata, de Soya abbassa il visore. Il display tattico è rovinato. De Soya apre il canale di comando con lo skimmer di Barnes-Avne. «Comandante, qui il Padre Capitano de Soya. Comandante?»

La linea non funziona.

— Il comandante è morto, signore — dice Gregorius, premendo contro il braccio nudo di de Soya una fiala di adrenalina. Il Padre Capitano non si ricorda che gli abbiano tolto il guanto e la corazza da combattimento. — Ho visto sul tattico il suo skimmer entrare in azione, prima che tutto andasse all’inferno — prosegue il sergente, legando all’osso della coscia la gamba penzolante di de Soya, come se legasse un carico libero. — Il comandante è morto, signore. Il colonnello Brideson non risponde. Il capitano Ranier, dalla nave torcia, non risponde. La Tre-C non risponde.

De Soya lotta per non perdere conoscenza. — Cosa succede, sergente?

Gregorius si china su di lui. Ha i visori alzati e de Soya scopre solo allora che il gigantesco sergente è un nero. — Prima d’entrare nelle Guardie Svizzere, noi marines avevamo un’espressione per indicare cosa ci hanno fatto, signore.

— Un Charlie Papa — dice il Padre Capitano de Soya, tentando di sorridere.

— Così si esprime la gente per bene della marina come lei — conferma Gregorius. Indica ai due soldati la bolla frantumata. I due strisciano fuori. Gregorius solleva di peso de Soya e lo porta fuori, come un bambino. — Nei Marines, signore — continua, senza neppure il fiatone per lo sforzo — noi dicevamo "un culo a paracqua".

De Soya si sente svenire. Il sergente lo depone sulla sabbia.

— Resista, Capitano! Santiddio, mi sente? Resista! — Gregorius grida.

— Modera il linguaggio, sergente — dice de Soya, sentendosi scivolare nell’incoscienza, ma incapace di resistere e riluttante a farlo. — Sono un prete, non dimenticarlo… Nominare il nome di Dio invano è peccato mortale. — Sprofonda nelle tenebre e non sa se ha detto o no ad alta voce l’ultima frase.

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